Alberto Pasolini Zanelli
Una crisi si annunciava da diversi
giorni, ai danni dell’America e dei suoi alleati nel Medio Oriente. Ma nemmeno
i più ansiosi pessimisti se la aspettavano di queste proporzioni. In poche ore
si sono accumulate le cattive sorprese, non necessariamente tali perché in grande
numero sono o paiono la conseguenza di iniziative errate o almeno precipitose
della Casa Bianca. Cominciando dall’“armistizio” che Trump aveva annunciato fra
gli Stati Uniti e le diverse fazioni che si sono create in Siria in più di
dieci anni di guerra civile, nata dall’illusione di molti Stati che la “primavera
islamica” si potesse estendere a poco prezzo anche a Damasco. Sapevamo da tempo
che non era andata così: la strategia per abbattere il regime di Assad, autoritario
ai confini della dittatura, non ha funzionato a causa della imprevista dura
resistenza delle forze di Stato, integrate dallo scontro religioso. Assad ha resistito,
con fatica e brutalmente, per diversi anni finché è esplosa una nuova “rivoluzione”,
islamica nella misura più estrema che ha portato alla conquista di una parte
estesa e importante del territorio, fino alla proclamazione di un nuovo Stato con
capitale a Raqqa, che è durato anni, occupato dalle milizie dell’Isis,
apparentemente imbattibile anche da una coalizione di forze di diversi Stati. Fino
a che nel conflitto non è entrata la Russia apertamente e l’Iran attraverso una
sua forza armata “indipendente”, appoggiata fra l’altro dalla Turchia.
Ciò ha portato alla liberazione di
quasi tutto il Paese dalla dittatura dei fanatici. Poi le operazioni sono
rallentate, creando illusioni, finché la guerra si è riaccesa, con “fronti” in
parte nuovi e più visibili: da una parte i resti dell’Isis, dall’altro due
fronti: quello “indiretto” guidato da Mosca e l’altro più aperto, a guida di
Washington. Cioè con finanziamenti, armi e consigli americani e consistente sul
terreno di due “eserciti” sorprendentemente alleati: quello turco e quello
indipendentista curdo, essenzialmente antiturco. I due hanno sospeso per
qualche tempo le loro ostilità e “creato” una “striscia di sicurezza” al
confine fra la Turchia e la Siria riconquistata da Assad e con l’appoggio
decisivo degli Stati Uniti.
Questo equilibrio instabile e insufficiente
è andato in pezzi per una decisione del presidente Usa Trump, che improvvisamente
ha ordinato il ritiro dalla Siria delle forze americane, lasciando soli nella “striscia”
non più di sicurezza i nemici secolari curdi e turchi, questi ultimi lanciati
in una guerra totale.
Ed ecco la svolta. In pochi giorni
la potenza americana è scomparsa da quel teatro di guerra. I curdi hanno
rischiato lo sterminio, sul campo di battaglia è riemerso improvvisamente l’esercito
siriano regolare di obbedienza governativa. La “striscia” si è disgregata in pochi
giorni. Mentre ritirava i suoi soldati (e i suoi missili), Trump ha cercato di “stabilizzare”
il terreno con un ultimatum alla Turchia: rinunciare all’invasione dell’Irak o
sottoporsi a sanzioni finanziarie importanti. I turchi non hanno obbedito, hanno
continuato l’avanzata, ai curdi è rimasta una sola “carta” militare: l’alleanza
di fatto con l’esercito di Assad, un gesto che ha suscitato le reazioni previste
dalla Casa Bianca in una parte del mondo arabo. Ma non tutta. E qui è nata l’ultima
e più grave sorpresa: a “tranquillizzare” il “numero uno” di questo
schieramento, è intervenuta la Russia, riaffacciandosi sul teatro di operazioni
e puntando direttamente sull’Arabia Saudita, lo Stato più filoamericano di
quella parte del mondo. A dirle che doveva star tranquilla si è spostato personalmente
Vladimir Putin, che è volato a Riad, ha “abbracciato” il re più assoluto della
Terra e ha promesso di “non interferire”, vale a dire di appoggiare la svolta saudita.
E così mentre gli aerei militari Usa volano per portare a casa i marines e le
altre truppe scelte, il presidente russo percorreva le strade della capitale,
scortato nella forma più esplicita da reparti di cavalleria saudita in divisa
di lusso. Di quelle riservate a salutare i capi dei Paesi amici. Ce ne è rimasto
un altro, forse necessario ma certamente il più “nemico” degli Stati Uniti. Intanto
è “esplosa” l’accoglienza nel mondo politico di Washington, a lungo tacciato di
“guerrafondaio”, Donald Trump viene dipinto ora come un debole pacifista a
tutti i costi.