Identità e integrazione, la libertà nel ripieno dei tortellini
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 4 ottobre 2019
Nella nostra società così destrutturata bastano flebili aliti di vento per creare grandi tempeste. Ho cercato perciò di riflettere su come un evento assolutamente normale e abituale abbia finito col dividere una città e, anche se marginalmente, un intero paese.
Partiamo dal fatto in sé. Oggi la città di Bologna celebra, come da tradizione millenaria, la festa di S. Petronio, suo antico patrono. Da tempo immemorabile, in una città nota per essere non solo ospitale ma anche colta e grassa, alle consuete celebrazioni si accompagna una robusta tavolata collettiva che, attraverso il contributo di decine (o forse centinaia) di volontari coordinati da un apposito comitato, ha preparato, per tutti coloro che ne volessero fruire, cinque quintali di tortellini, piatto tradizionale della città. Come è stato fatto in tanti altri contesti, accanto ai quintali di tortellini robustamente nutriti di carne di maiale, ne sono stati preparati quattro o cinque chili ripieni di pallida carne di pollo. Tutto questo a beneficio di coloro che, per appartenenza religiosa o per altre scelte, preferiscono il pollo al maiale. Il tutto con la stessa naturalezza con cui quando invito a colazione un collega ebreo mi adopero per offrire un’alternativa all’antipasto di prosciutto o mortadella.
La notizia di quest’evento quasi trascurabile è stata fulmineamente diffusa in modo distorto (nel linguaggio attuale si chiama una fake news) dal terribile messaggio che tutti i cinque quintali di tortellini erano stati imbottiti di carne di pollo allo scopo di compiacere i commensali islamici.
Non poteva quindi aprirsi un’occasione più ghiotta (aggettivo in questo caso assai appropriato) perché la politica si intromettesse subito nella guerra dei tortellini. Non solo Salvini (notoriamente il più lesto di tutti) ma tanti altri hanno reagito con rapidità e vigore degni di miglior causa, imputando agli organizzatori il duplice sacrilegio di avere profanato la nostra tradizione religiosa per compiacere gli islamici e la nostra tradizione culinaria per avere espulso il maiale da tutti i tortellini e non solo dai quattro o cinque chili previsti.
I dibattiti che ne sono seguiti sarebbero degni di un quadro ben più colorito di quello che sto dipingendo, perché da un lato i numerosi chef bolognesi si sono affrettati ad approfittare della pubblicità dell’accaduto per sottolineare come nel loro locale da decenni si servano tortellini di diversissima natura, fino ad arrivare a combinazioni addirittura fantasiose, mentre altri hanno sostenuto che il sacro nome poteva essere utilizzato solo adottando l’altrettanto sacra ricetta ricevuta dagli antenati e consacrata dall’apposito comitato.
In fondo questo è rimasto un dibattito fra raffinati ma, a livello popolare, la vera disputa si è spostata sul fatto che si potesse servire anche a coloro che sono diversi da noi un piatto che si chiama con un nome (tortellino) che riteniamo legato alla nostra esclusiva identità.
Ad un attento osservatore non possono infatti sfuggire le parole proferite da molti autorevoli osservatori che hanno solennemente affermato (quasi ex cathedra) che per i mussulmani i tortellini dovevano essere almeno chiamati con altro nome o che si dovessero a loro offrire cibi diversi, come ad esempio le tagliatelle.
A parte il fatto che tutto questo avrebbe posto il problema di come condire le tagliatelle senza usare carne di maiale, resta il discorso serio di come il messaggio politico dell’impossibilità di integrazione sia penetrato in tanta parte di noi così profondamente da coinvolgere anche gli aspetti del tutto assurdi dei nostri rapporti con gli altri. E questo fornisce anche la spiegazione del perché Salvini, pur di fronte alla molteplicità e alla gravità dei problemi della società italiana, continui a insistere quasi esclusivamente sulla paura dell’immigrazione.
Dobbiamo tuttavia a questo punto porci anche il problema di come fare avanzare il necessario processo di integrazione dei milioni di emigranti che sono ormai un elemento indispensabile per l’elementare funzionamento della nostra società: dalla coltivazione dei campi, ai turni notturni delle fabbriche fino a coloro che si prendono cura delle centinaia di migliaia di anziani e di non autosufficienti. Non appare certo semplice spiegare come, per il nostro futuro, sia indispensabile che gli immigrati imparino la nostra lingua e contribuiscano allo sviluppo della nostra società se non riteniamo che possano mangiare insieme a noi un piatto che porta lo stesso nome.
Non si tratta infatti di rinunciare alla necessaria regolamentazione del fenomeno migratorio ma, più semplicemente, di tenere presente che non è di scarsa importanza il garantire agli italiani e agli stranieri la stessa libertà di scelta sul ripieno dei tortellini.
E che in fondo gli immigrati, mangiando con noi i tortellini, finiscono con il fare propria una parte della nostra tradizione.
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 4 ottobre 2019
Nella nostra società così destrutturata bastano flebili aliti di vento per creare grandi tempeste. Ho cercato perciò di riflettere su come un evento assolutamente normale e abituale abbia finito col dividere una città e, anche se marginalmente, un intero paese.
Partiamo dal fatto in sé. Oggi la città di Bologna celebra, come da tradizione millenaria, la festa di S. Petronio, suo antico patrono. Da tempo immemorabile, in una città nota per essere non solo ospitale ma anche colta e grassa, alle consuete celebrazioni si accompagna una robusta tavolata collettiva che, attraverso il contributo di decine (o forse centinaia) di volontari coordinati da un apposito comitato, ha preparato, per tutti coloro che ne volessero fruire, cinque quintali di tortellini, piatto tradizionale della città. Come è stato fatto in tanti altri contesti, accanto ai quintali di tortellini robustamente nutriti di carne di maiale, ne sono stati preparati quattro o cinque chili ripieni di pallida carne di pollo. Tutto questo a beneficio di coloro che, per appartenenza religiosa o per altre scelte, preferiscono il pollo al maiale. Il tutto con la stessa naturalezza con cui quando invito a colazione un collega ebreo mi adopero per offrire un’alternativa all’antipasto di prosciutto o mortadella.
La notizia di quest’evento quasi trascurabile è stata fulmineamente diffusa in modo distorto (nel linguaggio attuale si chiama una fake news) dal terribile messaggio che tutti i cinque quintali di tortellini erano stati imbottiti di carne di pollo allo scopo di compiacere i commensali islamici.
Non poteva quindi aprirsi un’occasione più ghiotta (aggettivo in questo caso assai appropriato) perché la politica si intromettesse subito nella guerra dei tortellini. Non solo Salvini (notoriamente il più lesto di tutti) ma tanti altri hanno reagito con rapidità e vigore degni di miglior causa, imputando agli organizzatori il duplice sacrilegio di avere profanato la nostra tradizione religiosa per compiacere gli islamici e la nostra tradizione culinaria per avere espulso il maiale da tutti i tortellini e non solo dai quattro o cinque chili previsti.
I dibattiti che ne sono seguiti sarebbero degni di un quadro ben più colorito di quello che sto dipingendo, perché da un lato i numerosi chef bolognesi si sono affrettati ad approfittare della pubblicità dell’accaduto per sottolineare come nel loro locale da decenni si servano tortellini di diversissima natura, fino ad arrivare a combinazioni addirittura fantasiose, mentre altri hanno sostenuto che il sacro nome poteva essere utilizzato solo adottando l’altrettanto sacra ricetta ricevuta dagli antenati e consacrata dall’apposito comitato.
In fondo questo è rimasto un dibattito fra raffinati ma, a livello popolare, la vera disputa si è spostata sul fatto che si potesse servire anche a coloro che sono diversi da noi un piatto che si chiama con un nome (tortellino) che riteniamo legato alla nostra esclusiva identità.
Ad un attento osservatore non possono infatti sfuggire le parole proferite da molti autorevoli osservatori che hanno solennemente affermato (quasi ex cathedra) che per i mussulmani i tortellini dovevano essere almeno chiamati con altro nome o che si dovessero a loro offrire cibi diversi, come ad esempio le tagliatelle.
A parte il fatto che tutto questo avrebbe posto il problema di come condire le tagliatelle senza usare carne di maiale, resta il discorso serio di come il messaggio politico dell’impossibilità di integrazione sia penetrato in tanta parte di noi così profondamente da coinvolgere anche gli aspetti del tutto assurdi dei nostri rapporti con gli altri. E questo fornisce anche la spiegazione del perché Salvini, pur di fronte alla molteplicità e alla gravità dei problemi della società italiana, continui a insistere quasi esclusivamente sulla paura dell’immigrazione.
Dobbiamo tuttavia a questo punto porci anche il problema di come fare avanzare il necessario processo di integrazione dei milioni di emigranti che sono ormai un elemento indispensabile per l’elementare funzionamento della nostra società: dalla coltivazione dei campi, ai turni notturni delle fabbriche fino a coloro che si prendono cura delle centinaia di migliaia di anziani e di non autosufficienti. Non appare certo semplice spiegare come, per il nostro futuro, sia indispensabile che gli immigrati imparino la nostra lingua e contribuiscano allo sviluppo della nostra società se non riteniamo che possano mangiare insieme a noi un piatto che porta lo stesso nome.
Non si tratta infatti di rinunciare alla necessaria regolamentazione del fenomeno migratorio ma, più semplicemente, di tenere presente che non è di scarsa importanza il garantire agli italiani e agli stranieri la stessa libertà di scelta sul ripieno dei tortellini.
E che in fondo gli immigrati, mangiando con noi i tortellini, finiscono con il fare propria una parte della nostra tradizione.