Alberto
Pasolini Zanelli
Trentatré milioni
di americani hanno passato una notte, raccontano le statistiche, ad aspettare
il verdetto delle Olimpiadi cinematografiche, con un po’ meno di festa e un bel
po’ di più di incertezza, attesa e tensione. Adesso dovrebbero riposarsi e
invece è una nuova tensione che gli salta addosso, molto più importante e
concreta e anche più grossa come numeri. Dalla festosa serata di Hollywood si è
passati a una nuova raffica di cifre, meno liete e più contrastate: Donald
Trump ha ripreso la parola ma un po’ diversamente di quanto era parso prediligere
quella più vaga, a breve termine e contraddittoria dei primi due mesi di sua
permanenza alla Casa Bianca. Non ha smesso di fare cifre, ma ne ha portata in
primo piano una precisa, per taluni incoraggiante, per i più forse inquietante
o almeno sorprendente. Per gli americani e per gli altri, alleati o concorrenti
della Superpotenza.
Ha tirato fuori un
foglietto con un programma e una dimensione. Con una cifra in realtà sola, ma
la più importante: il conto della sua promessa di riarmo. Chiederà al
Congresso, nel prossimo anno fiscale, un aumento di 54 miliardi di dollari di
spese militari. Un incremento del 10 per cento, superiore a quello che i più si
erano abituati a calcolare pur di fronte al ripetuto impegno del nuovo
presidente a concentrare il riarmo auspicato, promesso e minacciato proprio
sulle armi e non sugli investimenti politici, diplomatici ed economici. Un
aumento di spesa imponente e in buona misura compensato da risparmi negli altri
campi. In tutti, non solo nella riduzione delle spese per la salute pubblica,
ma anche e soprattutto nel bilancio dei do
ut des. Il Pentagono ingrassa, altri capitoli di spesa dimagriscono,
soprattutto quelli di solito considerati nei programmi di difesa.
Proprio Trump
aveva detto e ripetuto nella sua campagna elettorale più gonfia di minacce che
di promesse, che sarebbe toccato, adesso, agli alleati della Nato, finora
“mantenuti” dall’America, investire di più per la difesa comune.
Con l’appello
odierno, invece, è l’America che il suo leader invita ad aprire più
generosamente il portafoglio, a fare la spesa soprattutto nei progetti militari
di ogni genere, inclusa la ripresa della corsa al nucleare. Il Pentagono
ingrassa, il Dipartimento di Stato dimagra, gli alleati e i clienti dovrebbero
stringere la cinghia. Non si tratta di un incremento normale. Per afferrarne le
dimensioni occorre, e basta, pensare ai dati d partenza. Già oggi gli Stati
Uniti (evidentemente la potenza numero uno), spendono per il bilancio militare
più dei successivi sette altri Paesi più robusto. Non solo più degli alleati ma
i concorrenti principali, a cominciare dalla Russia e dalla Cina sommate. Gli
aiuti all’estero, in un Paese tradizionalmente “generoso” come l’America scendono
all’1 per cento del bilancio federale, a 42 miliardi di dollari mentre il
budget del Pentagono sale a 600 miliardi, in gran parte per nuove macchine
militari made in Usa. Cifra ancora più significativa se si tiene presente che
la prevedibile diminuzione in conseguenza della fine della Guerra Fredda era
stata subito rimangiata dal grande allarme dovuto all’assalto del terrorismo. Un
incremento di almeno il 10 per cento all’anno, anche durante la presidenza
Obama, considerato un “pacifista”.
Trump non fa
niente per nasconderlo: lo definisce “uno dei più grandi programmi di
rafforzamento militari nella storia d’America. Ha già fatto una cifra,
precisandola nelle ultime ore al momento di svelare il progetto al Congresso:
una richiesta che include molto più dollari per il varo di due navi e aerei al
fine di “ristabilire una robusta presenza nelle acque internazionali”, come ad
esempio gli Stretti di Hormuz e il Mare della Cina del Sud.
Non è detto che la
Casa Bianca otterrà proprio tutti i dollari che oggi richiede. Il Congresso
potrà lottare per contenere alcuni capitoli di spesa. È già nel programma dei
democratici, da tempo convinti che la spesa in armi non è l’unico né il principale
strumento per cementare la sicurezza del’America. Lo pensano anche molti
repubblicani, anche e soprattutto conservatori sedici che si stanno
risvegliando dal sonno forzato postelettorale. Fra coloro che hanno alzato la
voce in questi giorni ed ore c’è anche un ex presidente, George W. Bush,
considerato tutto fuori che una colomba.