Alberto Pasolini Zanelli
È stato l’ennesimo dibattito di una
campagna elettorale chiusa e risolta da mesi. Finita ma non conclusa, un po’
meno rabbiosa ma sempre avvelenata. In palio non c’era più la Casa Bianca, ma
tanti applausi e tanti fischi, solidarietà nel bene e nel male, una giuria
molto più larga di quanto sia la regola per la scelta e la consegna dei premi
Oscar. Davanti a una giuria molto allargata, in un pulpito che la trasmetteva
in tutta America e in molta parte del mondo, in un’urna di cristallo più
visibile in questo senso che non quella ufficiale ed autentica che rinserra fra
pareti di legno scelte di carta. Il presidente degli americani è stato scelto
ormai da alcuni mesi in una discrezione formale. Stavolta toccava al presidente
di Hollywood. Si è votato con maggiore trasparenza, senza pretese di
discrezione. A rigore si può dire che stavolta non abbia vinto Trump ma una
giuria ristretta a lui prevedibilmente ostile, a tratti rabbiosa che lo ha
giudicato parlando formalmente d’altro. La
La Land al posto della Casa Bianca, un buon film con due buoni attori e uno
spartito eccellente: un lui, una lei. Una storia d’amore che finisce non
proprio in pareggio ma in buona musica. Con tanto veleno, però, nello spartito
e una giuria informale e spesso rabbiosa. Non ne facevano parte solamente i
professionisti di Hollywood ma dei giurati informali scelti dalla storia e dal
caso. La voce più mordace della pubblica accusa era stata quella di Meryl
Streep che un paio di settimane fa aveva provocato una risposta forse ancora
più esplosiva dal fresco inquilino della Casa Bianca. Stavolta erano entrambi
fuori dalla Casa di Cristallo. In compenso c’erano e parlavano più o meno
direttamente personaggi storici o imparentati dalla Storia all’arte
cinematografica.
A cominciare dalla pronipote di
Nikita Krusciov, che oggi è americana e professoressa di Affari Internazionali
a New York, scottata dall’avere udito nel dibattito una frase che giudica
“degna di Stalin” come “nemici della patria, coniata per introdurre la distruzione
fisica” dei dissidenti. C’era Daniel Ellsberg, accusato e processato quando il
presidente era Nixon, di crimini che oggi non sono più tali. Il comico umorista
Bill Maher, eminenza della sinistra gay, ma nell’occasione più moderato:
“Sarebbe bello, ma non è possibile per la cultura riparare i mali della
società”. C’era un attore italiano, Alessandro Bertolazzi, che ha dedicato il
suo film Suicide Squad agli
immigranti contro cui Trump vuole costruire un muro. Un regista iraniano Asghar
Farhadi, ha boicottato la cerimonia anch’egli per protesta con il bando agli
immigranti, interprete come volpe in un cartone animato dal titolo Zootropolis. Gael Garcia Bernal ha
aggiunto che “come messicano, come latinoamericano come emigrante, come essere
umano sono contro a ogni tipo di muro che voglia separarci”.
Qualcuno ha scelto anche un ruolo
di relativa difesa, Jimmy Kimmel che ha ringraziato per primo proprio Donald
Trump, rilevando che “c’erano più Oscar razzisti l’anno scorso quando il
presidente era Obama” e il concorso era stato soprannominato “Oscar così
bianco”. Ma aveva il coltello dietro la schiena e lo ha estratto alla fine del
suo monologo, annunciando che quest’anno lo spettacolo degli Oscar sta
rappresentando “più di 225 Paesi che oggi ci odiano”. Viola Davis ha vinto un
Oscar per il suo ruolo in Fences, il
musulmano Mahershala Ali è andato a premio con Moonlight. Un successo a sorpresa dovuto a un equivoco a sua volta
figlio della confusione, dell’eccitazione e della trasformazione di un appuntamento
artistico in un processo o in un comizio. Quando il presentatore ha estratto
l’ultima busta rossa sigillata con dentro il titolo del “migliore film” non ha
aspettato a leggerci dentro e ha proclamato la vittoria di La La Land. Poi ha guardato, c’era scritto Moonlight. A qualche organizzatore sono venuti i sudori freddi. Il
resto della grande sala è scoppiato in una risata. Di riconciliazione.