Alberto Pasolini Zanelli
È un’eccezione, non si sa se basti,
perlomeno ha un nome che risuona. La sinistra latinoamericana ha vissuto negli
ultimi anni una rivincita che non molti si attendevano dopo il disastroso
crollo dei suoi anni di gloria rimasti tuttora nella storia sotto il nome di
Juan Peron. Una spinta che si era esaurita, divorata dalla riscossa
liberaldemocratica in quelle stesse terre, che sembrava aver risolto la vecchia
alternativa fra populisti e militari o comunque altre forme di governi autoritari.
La sinistra risorse in attesa, cominciando proprio, invece che come al solito
da una delle maggiori potenze nella zona, l’Argentina o il Brasile, da un Paese
piccolo e non molto presente nelle grandi cronache internazionali: l’Ecuador.
Risorse con uno slogan più che classista, culturale e di razza: la rivincita degli
indigeni in Paesi, soprattutto nella regione andina, dominati dai conquistadores
o semplicemente dagli immigrati europei. Poi l’ondata favorevole si estese con
gli esperimenti in Paesi maggiori, dal Brasile, all’Argentina al Venezuela. Non
durò molto. La sinistra rimane al potere soprattutto nell’America Centrale,
nello storico Nicaragua sandinista, ma soprattutto nel piccolo Ecuador. Con
maggiore successo che negli Stati fratelli e soprattutto con maggiore durata.
Se l’Argentina, il Brasile, il
Venezuela hanno visto il collasso della sinistra, l’Ecuador è arrivato alla sua
scadenza elettorale come la felice eccezione. Merito di uno statista e di un
minerale. Il presidente Rafael Correa si definì rivoluzionario e mantenne la
promessa, agevolato dal boom petrolifero. L’oro nero toccò i vertici nel suo
prezzo proprio negli anni delle riforme e Correa non esitò a versare tutto quel
liquido negli strati più poveri della popolazione, conseguendo così una comoda
rielezione, appoggiata a cento dollari al barile. Il ritmo delle sue riforme fu
così energico, riassunto in un gioco di parole. Correa non è solo un cognome ma
anche il nome di una cosa: correggia, cintura, da usare non soltanto per tenere
su i pantaloni ma per distribuire o almeno promettere cinghiate. Una minaccia
che suonava come una promessa, soprattutto perché mantenuta.
Adesso è venuta meno non per motivi
politici né economici, ma costituzionali: più di tante volte un presidente della
Repubblica non è rieleggibile e così Rafael Correa va in pensione. In un
momento comodo per lui ma non per il Paese, dal momento che il petrolio è da un
pezzo ridisceso dalle sue vette e lo Stato Assistenziale è costretto a rientrare
nell’armadio. La strada è aperta, dunque, agli aspiranti successori.
Si sono presentati in otto, che
pare un’indicazione che quella poltrona è tuttora appetibile. Promettono correzioni
diverse in rapporto al mutamento dell’economia. I più si presentano come
riformisti, vale a dire più a destra del presidente uscente. Non promettono
però di capovolgere le sue impostazioni politiche, ma di interrompere le
erogazioni dal momento che il fiume del petrolio è in secca. Ci sono anche
molti partiti a conferma del fatto che Correa, a differenza degli altri leader
della sinistra sudamericana, ha rispettato il sistema democratico. Ci sono
dunque dei centristi, c’è perfino una candidata democristiana, i rossi
sembrerebbero in minoranza. C’è però qualcuno che li può salvare e non solo perché
si presenta come il continuatore di Correa, ma per il suo nome: Lenin. Nome di
battesimo non così raro nelle terre andine. Pare ce ne siano migliaia, ma lui
si candida in una occasione quasi storica: sono esattamente cent’anni che il
vero Lenin assunse il potere in Russia con una rivoluzione che assomigliava
molto a un colpo di Stato e che diede vita all’Unione Sovietica che doveva
durare tre quarti di secolo. Il Lenin minore, quello sull’Ecuador, si chiama di
cognome Moreno. Il suo partito è Alianza Pais, la principale forza di
opposizione è guidata da un ricco banchiere di nome Guillermo Lasso. L’uomo
simbolo del capitale si distingue dal concorrente anche per come intende
affrontare il problema di Wikileaks, il cui fondatore Julian Assange,
ricercatissimo dalla polizia americana, si è rifugiato nell’ambasciata
ecuadoriana a Londra. Se vincesse Lasso sarebbe probabilmente disposto a
concedere l’estradizione. Lenin, invece, promette di difendere un uomo che è a
suo modo rivoluzionario. Il primo turno gli ha dato ragione: 30 per cento a
Lasso, 38 per cento a Lenin. Si rivedranno in aprile.