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L’ora dei conti è arrivata



Alberto Pasolini Zanelli
L’ora dei conti è arrivata per la classe politica americana più presto di quanto i più, non si sa perché, si attendessero. Come se gli scandali e scandaletti, le iniziative troncate di colpo, i capogiri di Donald Trump, dei suoi collaboratori e dei suoi avversari avessero bisogno di settimane o mesi per maturare. Il mondo d’oggi è veloce, l’America è più di tutti gli altri Paesi, nel cogliere i frutti dei successi ma anche, più sovente, nel pagare le conseguenze dei passi falsi. Non soltanto dell’inesperto che siede da un paio di settimane alla Casa Bianca, che ha condotto una campagna elettorale fuori dalle consuetudini con una vittoria tanto più brillante in quanto meno attesa e che ha creduto di poter continuare a quel ritmo di corsa senza sedersi almeno un poco a riflettere e a tastare le conseguenze e le difficoltà di un ruolo che egli ha dimostrato di saper conquistare ma non ancora di saper gestire. Ci sarebbe voluto, per la verità, un altro miracolo, anche perché non solo Trump era praticamente obbligato a inciampare e a sbagliare nei primi pochissimi giorni di Casa Bianca, ma anche e soprattutto sono venuti e continuano ad attirare i costi di una campagna elettorale spregiudicata e non poco di azzardo.
Al di là delle proporzioni, in quanto queste settimane, se non saranno mesi, saranno l’occasione d’oro per l’opposizione, che non è soltanto democratica ma ha anche delle roccheforti repubblicane, che ha dalla sua l’esperienza, il privilegio di una ridotta responsabilità e la comodità di dire no ad ogni occasione. Figurarsi quando è buona come è indubbiamente oggi lo strascico delle dimissioni (o forse del licenziamento) di un generale che ha fatto le sue buone esperienze sui campi di battaglia o negli Stati maggiori, ma che non era preparato a una missione politica così delicata non in un Paese alleato, ma in una Superpotenza rivale come la Russia, guidata da un uomo scomodo come Vladimir Putin e apparentemente ansiosa da un lato di liquidare le ultime conseguenze della Guerra Fredda e dall’altro di recuperare posizioni e prestigio nella sua nuova orbita regionale. Se il generale Flynn fosse stato incaricato di condurre quelle sue esplorazioni a Londra, a Berlino, a Tokio o a Gerusalemme, avrebbe potuto egualmente sbagliare per il suo dimostrato eccesso di zelo, ma senza essere confusamente buttato in un bidone in cui coabitano i sospetti di spionaggio, salsa perenne dell’immagine del Cremlino in America. Così se ne è dovuto andare e di lui probabilmente non sentiremo più parlare, ma le porte che lui era stato mandato a Mosca per chiudere sono più spalancate che mai e le conseguenze negative si infittiscono inevitabilmente.
Una delle proposte delle ultime ore è quella di sospendere ogni collaborazione militare fra i due Paesi, che in gran parte del mondo è tuttora una vuota formula, ma che in Siria e in generale nell’area di attività di Isis e Al Qaida è l’arma che ha portato ai soli risultati veramente positivi ottenuti finora nella guerra al terrorismo. Fra i Paesi oggi meno tranquilli il primo è già, inevitabilmente, la Siria, che aveva appena cominciato a respirare dopo cinque anni di guerra civile e di pioggia di sangue.
Trump non sa probabilmente come reagire a questo sviluppo non desiderato e ha creduto di aver trovato l’occasione dei due incontri con leader vecchi e solidi alleati dell’America: il Giappone e Israele. Il primo non era portatore di problemi urgenti ed è anzi in questo momento in una fase di ricucitura con Washington a causa degli interessi comuni suscitati da un lato dal dissennato riarmo nucleare nordcoreano e dall’altro dalle comuni concrete preoccupazioni per il graduale e accorto espansionismo cinese nel Pacifico meridionale. Israele non ha una paragonabile ricchezza geografica e neppure i suoi avversari, concorrenti o nemici, a cominciare dai palestinesi, che si vedono oggi ritirare il piatto della più antica promessa, quella di due Stati in Palestina. Una vera svolta se Trump la intende proprio così e un fatto nuovo che forse potrà avere conseguenze positive alla lunga ma sul momento complica ulteriormente la partita. Poi toccherà all’Europa. L’inviato di Trump è già partito. Comincerà dalla Germania, come è ovvio. Ma dovrà fermarsi un momentino a riflettere su un curioso dato non nuovo ma che riemerge. Trump comprensibilmente si lamenta che gli alleati europei spendono per la Nato non solo meno dell’America, che sarebbe ovvio, ma anche proporzionalmente meno, a cominciare proprio da Berlino. La statistica che il nuovo Segretario di Stato Tillerson non potrà interamente