Alberto Pasolini Zanelli
È la conclusione che possono trarre
più o meno tutti, tranne gli addetti ai lavori. Quelli dei due campi che si
sono affrontati nei giorni e nelle settimane scorse in una guerra senza buon
senso ma condotta secondo infinite regole e che ha prodotto nei giorni scorsi
uno sconfitto e tanti vincitori. Lo sconfitto è naturalmente il presidente
degli Stati Uniti, che ha perso uno dei consiglieri di cui più si fidava nel
campo della politica estera e che ha perduto una considerevole fetta del
terreno che si era guadagnato con la sua vittoria elettorale a sorpresa e con
una conduzione iniziale della Casa Bianca troppo rapida e ansiosa come era
forse inevitabile dato che la maggioranza dei Poteri Forti, travolta alle urne,
è rimasta finora compatta in un ruolo di opposizione che sfrutta gli angolini
della legge ma anche talune inesperienze legali del nuovo inquilino della Casa
Bianca. Contro Donald Trump sono state lanciate battaglie in vari campi e senza
troppi riguardi, in risposta anche alla fretta e alla disinvoltura obbligata
con cui egli ha dovuto affrontare i primi passi del suo potere con inevitabile
scarsa esperienza e contro un’opposizione supercorazzata.
La vicenda di Michael Flynn è ora
nota, si è condotta in pochi giorni, è stata preparata con un leggero anticipo e
il suo esito ha finito con il riflettere i rapporti di forze in un settore
importante come quello della Difesa. Egli ha cercato di resistere senza potersi
coprire con una vera e propria struttura, è stato rapidamente abbandonato in
parte per il Potere avverso, in parte per una linea di difesa fragile perché
raffazzonata. La sua storia è complicata in apparenza, ma si riduce a un paio
di fatti e di scelte. Michael Flynn, generale in pensione, era stato
probabilmente scelto da Trump nel suo ruolo di consigliere della Casa Bianca
prima che la nuova gerarchia post elettorale si completasse o consolidasse. Era
necessario per un motivo non mutabile e quindi non discutibile: il calendario
elettorale che consente anzi prevede un lungo periodo in cui l’America ha due
poteri contemporanei. Donald Trump, eletto l’8 novembre, dichiarato vincitore
in gennaio aveva fretta di cominciare, non disponeva e non dispone di uno staff
di professionisti. Barack Obama, non sconfitto ma messo in disparte per il
calendario costituzionale, ha cercato a sua volta di completare qualche misura
che gli pareva urgente e che in qualche caso lo era. In un campo relativamente
nuovo e angosciante (la difesa contro l’immigrazione di possibili terroristi e
l’abbozzo di un muro alla più lunga frontiera americana) e poi la nuova fase di
una contesa ormai perenne fra gli Stati Uniti e la Russia, eredità e progenie
della Guerra Fredda.
Obama, cui l’intransigenza
repubblicana aveva praticamente impedito di governare in molti settori anche
urgenti, si era schierato con i “diffidenti” (nome odierno dei falchi) di
fronte alle iniziative, in parte inquietanti, di Vladimir Putin. Trump, nella
sua campagna elettorale ma anche prima, era parso fautore di una nuova
distensione, fino a una collaborazione militare e politica nel cruciale
scacchiere della Siria. Putin gli era parso incoraggiante, ma non tanto da
consentirgli di prendere decisioni vere e proprie e cercava di guadagnare tempo
facendo e scambiando qualche concessione. Di qui la nomina di una sorta di
ambasciatori di fatto che dovevano reggere le strutture provvisorie. Di qui
Flynn, ritirato fuori dalla pensione e spedito al Cremlino a tastare il terreno
sulle possibilità di un graduale miglioramento delle relazioni. Il suo
messaggio centrale a Putin riguardava gli scambi di sanzioni. L’inviato di
Trump a quanto pare promise che l’America avrebbe operato, intanto, per
attutire queste tensioni. Ufficialmente non poteva portare a Mosca un impegno
del genere perché l’inviato di Trump non rappresentava in quel momento nessuno,
dato che il presidente era ancora Obama. Di qui la fuga delle notizie, lo
scandalo, l’offensiva dell’opposizione e di gran parte dei media, una difesa
insufficiente perché carente sul piano formale e istituzionale. E la
capitolazione sotto la spinta di un processo che probabilmente verrà. La pagina
più incriminante è stata il sospetto che Flynn abbia promesso all’inviato di
Mosca a Washington Kislyak di mettere sotto voce scandali e polemiche per le
supposte interferenze russe nelle elezioni presidenziali Usa. Una promessa in
cambio di qualcosa. Per paura della quale si è preferito liquidare
l’ambasciatore.