Alberto Pasolini Zanelli
Ceux de
Barcelone è il titolo di un libro famoso ai suoi tempi e ancora oggi
noto e citato: una cronaca di caos vista da un fautore, la registrazione di una
speranza, di un odio, di un fallimento storico in linguaggio quasi poetico. Si
riferisce ai giorni in cui esplose la Guerra di Spagna del 1936, anzi del suo
capitolo meno “provinciale”, drammatico e perdente. Raccontava, in quel tempo,
Barcellona, anzi la Catalogna tutta. Non lo scrisse uno spagnolo, ma un
anarchico dell’Europa orientale, Hanns-Erich Kaminsky, amico di Bakunin, che a Barcellona
si trovava per caso e che la raccontò tutta dalla parte dei “rossi”. Cronache
di guerra civile dalla parte perdente e quindi soprattutto di caos. Come libro
diventò famoso ed è sopravvissuto in compagnia importante che comprendeva per
esempio Hemingway.
Tornerà di moda per qualche giorno
o settimana, non di più. Ma Ceux de
Barcelone, con le loro passioni, dureranno ancora dopo avere durato dal
1936. Pacificamente, è vero. Ma non guariti dalle loro rabbie. La guerra civile
che avrebbe portato al potere Franco appartiene a un altro pezzo di storia di
una nazione antica e drammatica come la Spagna e della sua “provincia”
difficile, la Catalogna. Che, come al solito quando prende la parola, pretende
una cosa soprattutto: l’indipendenza. Di solito ciò accade quando la sorella
maggiore, la Spagna, è in crisi e in disordine e può sembrare una buona idea
divorziarne. Il contesto di oggi non potrebbe essere più diverso. La Spagna si
è lasciata indietro da tanto tempo la sua pagina più drammatica, ha vissuto una
dittatura fascista ma che però ha saputo tenerla fuori dalla Seconda guerra
mondiale, si è tenuta il dittatore fino alla sua morte naturale e poi ha saputo
restaurare la democrazia in tempo relativamente breve e con un’abilità intrisa
di buon senso e per questo invidiata in mezzo mondo.
Fino a che non sono riemersi i
sogni e i “complessi” dei catalani in un mondo cambiato ma soprattutto cambiate
l’Europa e la Spagna, a causa di alcuni eventi che non potevano non avere
ripercussioni a Madrid e a Barcellona: la caduta del comunismo, la faticosa
costruzione di un’Europa in qualche misura soprannazionale, una crisi economica
mondiale, l’emergere in conseguenza di un sentimento antieuropeo e quindi di un
separatismo condiviso che non poteva saltare proprio la Spagna e dunque la
Catalogna. È riemersa la richiesta di indipendenza che dovrebbe fare Barcellona
più indipendente da Madrid di quanto Madrid sia indipendente da Bruxelles. Non
c’è stata una rinascita della vecchia estrema sinistra, però è nata una
sinistra nuova, Podemos, battezzata da uno slogan elettorale di Barack Obama, “Yes,
We Can”, ma anche una nuova destra con un nome però giacobino, Ciudadanos, che
hanno risultati elettorali alterni e variabili secondo le regioni. Si sono
create, insomma, le occasioni per un ritorno del problema catalano, inserito
però negli interrogativi europei.
Quelli di Barcellona hanno motivi
antichi per rinnovare la loro contestazione separatista ma anche pretesti nuovi:
dopo avere sofferto per anni della contraddittoria anemia europea, l’economia
spagnola si è ripresa in modo ammirevole, ma le tensioni politiche sono più
acute di prima e non è tutta colpa di quelli di Barcellona e di quelli di
Madrid. Un elettorato fortemente nazionalista, soprattutto per motivi
linguistici, si trova ad avere un governo regionale più autonomo di quelli che
esistono ad esempio in Italia, inseriti in un governo nazionale che è
inquadrato in un potere europeo. Barcellona si può esprimere in un Parlamento
catalano, in uno spagnolo, in uno europeo (senza contare le Nazioni Unite e la
Nato) che danno risposte, o almeno consigli, contrastanti. La fazione
indipendentista catalana non è più la Sinistra del tempo di Kaminsky e di
Franco: comprende una destra come i Ciudadanos. Ha un Parlamento proprio, ma
anche due centri di potere esecutivo: il sindaco di Barcellona e il primo
ministro di Madrid, quest’ultimo conservatore. Compiere delle scelte razionali
è dunque molto difficile e ciò può spiegare le pagine contraddittorie più
ancora che violente degli ultimi giorni. Il governo regionale ha indetto un
referendum che dovrebbe aprire la strada all’indipendenza. Il potere nazionale
lo ha proibito, sia nella sua branca esecutiva, sia nel potere giudiziario. Il
Parlamento regionale ha ribadito che il referendum si sarebbe fatto con una
sola domanda: indipendenza o no. Gli indipendentisti, lo sappiamo, hanno ottenuto
il 90 per cento dei votanti, che però sono stati un mero 42 per cento degli
elettori. Il governo di Madrid ha subito dichiarato nullo questo voto, il
governo di Barcellona ne ha confermato la validità, il governo europeo deve
ancora decidere, anche se si sa con certezza che è per il “no”, il supergoverno
chiamato Onu molto più possibilista, i governi delle altre “regioni d’Europa”
sono in grande maggioranza ostili perché se l’esempio catalano si diffondesse,
ciò metterebbe in crisi le istituzioni in Belgio fra fiamminghi e valloni, in
quello che resta della Gran Bretagna fra inglesi e scozzesi e magari anche
incoraggerebbe l’Italia della Lega. Senza contare l’ostilità intransigente
della burocrazia di Bruxelles, del Parlamento di Strasburgo e di vari poteri
giudiziari. Un paesaggio istituzionale frastagliato che si è rispecchiato
anche, com’era inevitabile, nella giornata elettorale. Madrid vieta, il governo
di Barcellona va avanti lo stesso, gli spagnoli cercano di ostacolare la
partecipazione alle urne e manda l’esercito. I catalani, in mancanza di meglio,
mandano i pompieri. Il risultato si può interpretare con un “sì” e con un “no”.
Qualcuno potrebbe addirittura annullare il voto considerato illegittimo. Dunque
è impossibile oggi sapere chi prevarrà: quelli di Madrid oppure ceux de Barcelone.