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La guerra continua, anzi le guerre



Alberto Pasolini Zanelli
La guerra continua, anzi le guerre: quelle classiche e quelle tecnologico-militari, quelle commerciali e quelle finanziarie. Sono conflitti esterni, almeno nella loro formulazione ufficiale, ma sono in compagnia delle guerre interne, quelle in cui i “nemici” sono più vicini e hanno lineamenti che dovrebbero essere più domestici. In altri termini, l’America di Trump è impegnata non solo nel Medio Oriente ma in quasi tutto il pianeta, ma in compenso si estendono sempre di più le guerre politiche con un solo nemico: il presidente degli Stati Uniti. Donald Trump è sotto assedio. Nello spazio di poche ore è stato “bombardato” non solo dall’opposizione in Congresso e neppure dagli esponenti del Partito democratico o dalla grande stampa e dalla televisione, tradizionalmente quasi tutti a sinistra e a cui la personalità di Trump offre facile occasione per tirargli delle pietre.
Ma poi, ed è questa la cosa più minacciosa per l’attuale inquilino della Casa Bianca, ci sono gli avversari interni, i più velenosi e i più efficaci: i repubblicani dissidenti. Li si vede, li si ascolta, li si legge, li si discute, ma anche in questo modo si incoraggiano i franchi tiratori di tutte le razze, raggruppamenti e alleanze. Nelle ultime quarantotto ore il presidente ha perduto la maggioranza in Senato e ha raccolto critiche anche, o soprattutto, aspre nei vari angoli di quella che dovrebbe essere la sua casa politica, di presidente e di leader della maggioranza in Congresso. Ha ricevuto l’addio di un altro senatore repubblicano, Jeff Flake, passando di fatto all’opposizione, preannunciando che non si ripresenterà alle elezioni dell’anno prossimo ma che invece dirà addio alla politica attiva, continuando però a smantellare il suo leader.
E a trovare “colleghi”. L’addio alla confraternita repubblicana era stato pronunciato da uno dei senatori più potenti ed ex candidato alla Casa Bianca contro Obama, a fianco cioè di colui che continua a criticare il presidente con asprezza ma soprattutto lo contesta nelle sue radici. Da ieri egli va a braccetto con il collega Bob Corker, che da tempo si è profilato come leader di un partito nuovo. Senatore di uno Stato tradizionalmente repubblicano e conservatore, ha definito Trump come “senza scrupoli” e decisamente troppo timido quando si tratta di difendere le cause giuste. Trump, ha appena detto Corker, “dà un cattivo esempio ai bambini” e che sta “corrompendo il Paese”. Flake e Corker sono di temperamento e origini politiche differenti, ma il loro passaggio all’opposizione ha fatto perdere ai repubblicani, almeno sulla carta, la maggioranza in Senato, che si era già preannunciata con il “no” di altri tre senatori, fra cui McCain.
Il partito di Trump disponeva dopo le elezioni di 102 seggi contro 98 di parte democratica. Adesso ne sono spariti cinque, scendendo a 97 con i democratici ad almeno cento. Già si era visto che non è proponibile realizzare importanti promesse elettorali, con la costruzione di un muro per tenere lontani gli aspiranti immigrati, soprattutto dall’America Latina. È stata bloccata dall’allora maggioranza la ristrutturazione, proposta da Trump, delle tasse e del sistema sanitario che il presidente aveva definito necessaria e possibile.
Ma adesso si annuncia la defezione di un leader storico del Partito repubblicano, già presidente degli Stati Uniti e padre di un altro ex presidente, quel George H. Bush che inaugurò una svolta importante e pericolosa conducendo la prima guerra contro l’Irak, chiusa con rapido successo a differenza del bis voluto dal figlio George W. Bush, cominciata nel 2001 e tuttora in corso come guerra civile fra le diverse fazioni etniche e religiose, ma che da allora obbliga alla continuata presenza e all’impegno tecnico americano. Non solo in Mesopotamia, ma anche nei Paesi confinanti, in forma direttamente militare o politica ma appoggiata dal peso delle armi. Nelle ultime ore inviati di Trump hanno portato in giro altri moniti: all’Irak, ormai nemico fisso dell’America, del Qatar, accusato di finanziare le varie forme di guerriglia e temuto dall’Arabia Saudita. Contemporaneamente il Segretario di Stato Rex Tillerson ha compiuto un volo di quasi settemila chilometri in Irak e in Afghanistan. Tillerson è già catalogato come critico di Trump, che di recente in un vivace dibattito con il capo dello Stato, lo ha definito “un idiota”, senza però dimettersi. Il presidente non è parso curarsene, ma negli ambienti vicini alla Casa Bianca si dà per prossima la sua uscita dall’Amministrazione.