Alberto Pasolini Zanelli
Non
è un coro, semmai una cacofonia. In ogni caso Donald Trump non potrà lagnarsi. Della
disattenzione dei suoi amministrati e del resto del mondo. Lo ascoltano tutti in
quasi tutti i continenti. Lo ascoltano quasi avessero qualcosa da dirgli, da
suggerirgli o da comunicargli i loro giudizi. Che non sono, questo no, troppo
lusinghieri, vengano da casa o da fuori. Gli americani, semmai, sono più severi
degli stranieri nell’esprimere giudizi sull’attuale inquilino della Casa
Bianca, soprattutto sulle note dell’apprensione. Dagli amici dell’America,
opportunisti o fedeli che siano. A cominciare da Theresa May, primo ministro
britannico (che gli consiglia con gentile sincerità di stare attento ad
abbandonarsi al suo istinto di stracciare il trattato con l’Iran, che non
sarebbe cosa prudente), dai suoi colleghi in Europa e nella Nato o a un amico
grato e fedele come un ex premier di Israele, Ehud Barak: “Se l’America lo
farà, rimarrà sola e a guadagnarci saranno i governanti di Teheran”.
I
più severi sono gli americani, a cominciare dal potente senatore repubblicano
Bob Corker (“Un gesto che potrebbe condurci sul sentiero di una terza guerra
mondiale”), ai responsabili della diplomazia e della Difesa, perché
“tengano il Paese lontano dal caos”, al Segretario di Stato Rex Tillerson, che
pure è sostanzialmente un falco e che ha apertamente criticato le insufficienze
del trattato con Teheran ma che è ostile al disegno del presidente di
stracciarlo “perché così regaleremmo agli iraniani la scusa per riprendere le
iniziative ostili nel Medio Oriente, che finora avevano sospeso, rispettando
del trattato le clausole nucleari”. Non che ci sia bisogno di convincere
Tillerson a contrapporsi in questo al presidente: in una discussione con Trump
diventata famosa, gli aveva dato del moron,
epiteto traducibile come “somaro” o “mentalmente ritardato”.
Avevano
discusso anche della Corea del Nord. Crisi che i più giudicano più grave di
quella iraniana perché l’avversario è meno conosciuto e dunque imprevedibile.
“Le strategie del presidente – aveva riassunto Tillerson - escono dal quadro
tradizionale e dai tradizionali traguardi perseguibili e ottenibili
nell’interesse del nostro Paese. Alla ricerca di strade nuove e di un approccio
drammaticamente diverso, dalla nostra politica tradizionale”. Un indizio
concreto è una scelta anche economica, che si propone di tagliare sensibilmente
le spese di gestione diplomatica e contemporaneamente di aumentare il bilancio
militare di 54 miliardi di dollari, pari all’intero budget del Dipartimento di
Stato. A quanto pare nella convinzione che la forza conti più della diplomazia
nei rapporti internazionali e che gli altri Paesi, anche alleati, rispondano
meglio alle minacce che alla persuasione.
Per
esempio si potrebbe impedire all’Iran di sviluppare missili balistici, che
potrebbero colpire bersagli nell’area. In tale quadro potrebbe rientrare anche
la minaccia di “distruggere totalmente” la Corea del Nord. E fra le cose che si
prevede sapremo presto. Entro una settimana Trump dovrà comunicare il suo
rifiuto di ratificare e prolungare la validità del trattato con l’Iran,
annunciando che esso “non è più nell’interesse degli Stati Uniti”. Se lo farà, toccherà
al Congresso chiuderlo o difenderlo prolungandone la sopravvivenza. Poi il
presidente potrà imporre nuove sanzioni non previste dal trattato. Se la
tensione continuerà ad aggravarsi, la situazione potrebbe assomigliare alla
casistica per le dichiarazioni di guerra. L’ultimo esempio rimanda a un
conflitto con l’Irak: un presidente, Bush, ottenne il permesso.
Questa
volta il contrasto è più netto e l’opinione pubblica potrebbe avere un ruolo
maggiore. I sondaggi indicano un diffuso e crescente malumore nei confronti del
presidente e della sua politica estera. Trentotto americani su cento la
approvano, 62 su cento no. Solo per quanto riguarda l’andamento dell’economia Trump
risale a quota 48. Tocca l’abisso, invece, nei giudizi come persona: 43 lo
ritengono all’altezza del suo officio, 57 no. Sulla onestà emergono 40 sì e 56
no. Se sia sano di cervello 29 sì e 67 no. Si ritorna a quello sfogo di
Tillerson che però non si è dimesso. E non è stato licenziato.