Malcom Pagani per www.vanityfair.it
Darryl Zanuck, il produttore di Elia Kazan, di Henry King e di Eva contro Eva «le
voleva tutte biondo cenere» e ogni pomeriggio, né troppo presto, né
troppo tardi, «riceveva in ufficio una ragazza diversa con la promessa
di un contratto». Se Hollywood è stato sempre sinonimo di Babilonia, il
divano del produttore, «meglio il sofà, come in quello straordinario
libro di Ford e Selwyn uscito all’inizio dei ‘90», sostiene Natalia
Aspesi, 88 anni da eretica sopravvissuta con un certo piglio ai roghi
del pensiero debole, ha rappresentato il lasciapassare per attrici dal
talento variabile.
Ava Gardner, ma anche Betty Grable, che con le sue gambe chilometriche passava dai set dal titolo profetico, Come sposare un milionario,
a feste da cui usciva, ricordò poi, «alle prime luci del giorno,
sentendomi come un osso intorno al quale cani rabbiosi avevano lottato
tutta la notte».
La
storia, suggerisce Aspesi, «è vecchia come il mondo». E prima di Harvey
Weinstein– e con ogni probabilità anche dopo di lui – continuerà. Dei
latrati che rincorrendosi sul web, in un ribaltamento di ruoli tra
presunte vittime e carnefici da prima pagina, abbaiano insulti verso le
attrici che hanno denunciato le incontrollabili pulsioni del produttore
statunitense, Aspesi non si cura: «Mi dispiace, ma non avendo tempo di
frequentare la rete, devo fare delle scelte».
E cosa ha scelto?
«Ho scelto di non occuparmene».
Però avrà letto. Dopo un silenzio ultraventennale, accompagnato da un brusio di voci non verificate, il New York Times e il New Yorker, sul tema Weinstein, negli ultimi giorni si sono dati battaglia a colpi di inchieste.
brad pitt gwyneth paltrow
«Ho
letto. Non tutto, ma quel che bastava. E le dico la verità: mi sembra
una vicenda in cui le storie finiscono per assomigliarsi tutte tra
loro».
E cosa raccontano queste storie?
«Un’insincerità di fondo. Sono un lamento tardivo. Un coro che non tiene conto della realtà dei fatti».
E qual è la realtà dei fatti?
«Che
i produttori, almeno da quando ho memoria di vicende simili, hanno
sempre agito così. E le ragazze, sul famoso sofà, si accomodavano
consapevoli. Avevano fretta di arrivare. E ancor più fretta di loro
avevano le madri legittime che su quel divano, senza scrupoli di sorta,
gettavano felici le eredi in cerca di un ruolo, di un qualsiasi ruolo».
C’è stata qualche eccezione?
«Poche. Sa cosa diceva Sofia Loren?».
Cosa diceva?
«Mi sono sposata per proteggermi, per non dover passare attraverso esperienze molto negative».
Cosa le dà fastidio leggendo a posteriori le ricostruzioni degli incontri di Weinstein con le attrici?
«La
rappresentazione ecumenica, irrealistica, quasi angelicata di questi
incontri. Il mostro da una parte, l’agnello sacrificale dall’altra. A
quanto leggo, Weinstein non concedeva normali appuntamenti
professionali, in ufficio, con una scrivania a dividere ambiti e
intenzioni. Non parlava di sceneggiature. Chiedeva massaggi. E se tu
chiedi un massaggio e io il massaggio te lo concedo, dopo è difficile
stupirsi dell’evoluzione degli eventi».
Che fa, Aspesi, giustifica?
«Non
giustifico niente. Il femminismo è ancora una delle missioni più
importanti per le donne di tutto il mondo, forse la più importante in
assoluto. È qualcosa in cui ho creduto e credo ancora ciecamente. Ma non
mi pare che con queste denunce possa fare un salto decisivo. Magari
sbaglio, ma ho i miei dubbi».
Che altri dubbi le vengono leggendo le cronache degli ultimi giorni?
«Che
sia una vendetta fratricida, per togliere di mezzo Weinstein. Era un
produttore potente come pochi e sporcaccione come moltissimi altri. Che
la storia, risaputa da decenni, sia venuta fuori con questa virulenza
soltanto adesso, accompagnata da decine di testimonianze, non può essere
casuale».
Cos’altro non è casuale?
«Il tempo che scorre. Alle 20 devo spedire un articolo per il mio giornale. La saluto, mi stia bene».