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Brexit: tre anni e mezzo di agonia, ma il peggio comincia ora


Chances e incognite: la Brexit finalmente, ma il peggio comincia ora
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 
Dopo tre anni e mezzo di agonia, con il sigillo della Regina, la Brexit sta arrivando al suo compimento. Venerdì a mezzanotte (ora italiana) la Gran Bretagna lascerà definitivamente l’Unione Europea.
Il processo di messa in atto del referendum è stato così lungo e penoso che a Bruxelles anche coloro che non volevano il distacco della Gran Bretagna (ed erano nettamente la maggioranza) stanno ora tirando un respiro di sollievo.
Con la consumazione del divorzio molti leader europei, a cominciare dalla Cancelliera tedesca, che pure era ad esso contraria, sono stati infatti quasi costretti ad essere contenti di porre fine alle incertezze di un paese che ha finito con il rallentare ulteriormente la già lenta capacità di decisione degli altri ventisette.
Non pensiamo però che i problemi siano finiti. In primo luogo, presa la decisione politica, i negoziati per regolare il divorzio, dopo un matrimonio durato oltre quarantacinque anni, si presentano molto complicati. Un matrimonio per effetto del quale non solo abbiamo in comune migliaia di leggi e regolamenti, ma un infinito numero di imprese che condividono proprietà, mercati e strategie produttive. Senza contare i progetti condivisi nel campo della ricerca e i milioni di lavoratori che si sono mossi dall’Europa alla Gran Bretagna e viceversa.
Per portare a termine quest’impressionante mole di lavoro, il primo ministro britannico si è dato un anno di tempo: uno spazio che gli esperti ritengono insufficiente, ma su cui Boris Johnson si è fortemente impegnato di fronte al Parlamento e all’opinione pubblica.
Anche se non possiamo tracciare gli itinerari precisi di questo percorso, cercheremo almeno, sperando che il tutto avvenga nei tempi stabiliti e in un clima di collaborazione reciproca, di riflettere su come saranno in linea di massima regolati, a partire dal 1 gennaio 2021, i flussi dei turisti, i diritti dei lavoratori, i pagamenti a carico degli studenti universitari, i nuovi regolamenti doganali e gli infiniti problemi ad essi connessi. Le informazioni e le indiscrezioni sulle dispute riguardanti questi temi ci perseguiteranno a lungo e, data la loro importanza, bisogna che i responsabili di Bruxelles e anche i nostri governanti esercitino una quotidiana attenzione sulle trattative.
Finora il raffinato tentativo britannico di dividerci è andato fallito, ma i prossimi negoziati non saranno carezze. In linea di massima non ci saranno ostacoli insormontabili per regolare in modo positivo i flussi commerciali: gli interessi al mantenimento di un mercato aperto sono troppo forti da entrambi i lati, anche se si profilano già notevoli differenze riguardo agli standard ambientali, alle regole sul lavoro e, soprattutto, riguardo alle politiche fiscali. A Bruxelles si è già preoccupati sulle possibili chiusure del mercato del lavoro, anche perché la restrizione dei flussi migratori è stata uno dei temi dominanti della campagna in favore della Brexit.
Le cose infatti non promettono bene in questo campo: mentre, solo per fare un esempio, la Camera dei Lord si era pronunciata a favore del proseguimento dell’adesione britannica al progetto Erasmus per la mobilità degli studenti, la Camera dei Comuni (che è la vera responsabile della decisione) ha preso le distanze da questa apertura.
La  preoccupazione dominante nei corridoi di Bruxelles riguarda tuttavia il pericolo di avere di fronte all’uscio di casa un paese grande e con il mercato finanziario più sofisticato d’Europa (e forse del mondo) che usa la leva fiscale come strumento di concorrenza con molta più sistematicità e ampiezza di quanto stanno già purtroppo facendo Irlanda, Olanda e Lussemburgo.
Prepariamoci quindi ad assistere a una battaglia senza esclusione di colpi, nella quale si dovrà trovare un compromesso sui diritti dei lavoratori, sulla mobilità degli studenti e sulle regole della protezione dell’ambiente.
Si tratta di problemi enormi: basti pensare che, in questo momento, vi sono 3,5 milioni di cittadini comunitari residenti nel Regno Unito e 1,2 milioni di cittadini britannici nell’Unione Europea.
Un altro grande interrogativo riguarda i possibili cambiamenti nel campo della politica estera. L’uscita della Gran Bretagna spingerà ad un alleggerimento delle sanzioni con l’Iran e la Russia, sanzioni che pur essendo appoggiate da un notevole numero di paesi europei, trovavano nella Gran Bretagna la posizione più intransigente?
E questo ci porta all’interrogativo fondamentale: vi sarà (come è sempre stata ferma convinzione dei sostenitori della Brexit) un rapporto economico e politico privilegiato fra il Regno Unito e gli Stati Uniti? E, nel caso, quale sarà la reazione dell’Europa?
Le incognite non sono finite, a partire dalla politica energetica. Senza dimenticare che, mentre un accordo sul flusso delle merci non è ostacolo insormontabile, nel campo dei servizi i problemi sono molto più complicati, a cominciare da quelli finanziari, settore nel quale i paesi europei, a partire dalla Francia, stanno già operando per riportare in patria funzioni fino ad ora accentrate nel mercato di Londra.
È quindi certo che, prima della fine dei negoziati, ne vedremo di tutti i colori.
Su un solo punto non vi è incertezza: la lingua franca dell’Unione Europea rimarrà l’inglese, anche se essa sarà la lingua madre solo dell’1% dei suoi cittadini.