Alberto Pasolini Zanelli
Si è aperto, non dà segno di
chiudersi, soprattutto nelle polemiche. Gli impeachment sono fatti così:
non succedono spesso (una volta ogni vent’anni o addirittura meno), ma durano,
si estendono, creano dibattiti collaterali; una volta conclusi danno il via
alle recriminazioni, alle polemiche e, anche e forse soprattutto, alla gloria
dei protagonisti, non tanto (ed è logico) degli imputati, quanto degli avvocati,
dei testimoni, dei presidenti. Anche se le “vittime” non raccolgono applausi o
consensi (è raro anche che suscitino compassione), accusatori e difensori
mettono da parte buoni gruzzoli di notorietà e, spesso ma non sempre, di “gloria”.
Rimangono nella storia della giurisprudenza politica americana. Il penultimo
processo di impeachment risale al secolo scorso, agli anni Settanta. Il protagonista
fu un presidente repubblicano, Richard Nixon. Fu condannato, pochissimi o
nessuno lo rimpiangono. I suoi reati non erano gravissimi, ma ferivano la buona
reputazione del sistema: la vicenda si aprì quando un paio di “spie di partito”
repubblicane furono scoperte da umili guardie di appartamenti, le ricerche
tirarono fuori che l’uomo della Casa Bianca sapeva e aveva cercato di
cancellare le tracce. Lo lapidarono e lo “convinsero”: si dimise prima ancora
della sentenza.
Adesso tocca a Trump, anch’egli presidente,
anch’egli repubblicano, con le mani in pasta in atteggiamenti e manovre
politiche impopolari, presentabili come gravi, coinvolgendo scelte di politica
estera e anche passaggi illegali di denaro; compiuti però da un suo avversario politico,
Joe Biden, ex vicepresidente (democratico) di Obama, ora aspirante a ritornare
alla Casa Bianca come presidente. Attraverso un sistema non frequente: una
carica non politica ma legata ad affari di petrolio e messa in mano a suo figlio.
Non era un reato, ma uno scandalo forse sì e Trump fu tentato di “tagliare le
gambe” a papà. La sede era in Ucraina, per quasi un secolo provincia sovietica,
poi indipendente dopo il crollo del sistema sovietico. Cosa che innervosì Putin
che cercò e cerca ancora di riportarla alla vecchia situazione. Con le
polemiche e anche con le armi. I governanti di Kiev chiesero aiuto all’America,
Trump promise un grosso carico di armi, ma non gratis: propose agli ucraini di
denunciare le “scorrettezze” di Biden in modo da cancellare le sue ambizioni. Così
l’Ucraina si trovò disarmata e amareggiata e in America si sollevarono,
comprensibilmente, i suoi simpatizzanti e si estese una polemica che portò
anche al licenziamento dell’ambasciatore Usa, una diplomatica di carriera da cui
l’America apprese che anche il figlio di Trump ricopriva cariche non del tutto
disinteressate. A questo punto le polemiche si moltiplicarono da entrambe le
parti, ma le accuse più gravi erano e sono contro Trump, anche perché è in
carica: non solo corruzione, ma anche complicità con il vecchio e temuto nemico
di Mosca. Dai e dai, impeachment, una creatura giuridica americana,
inventata, o scoperta, dai Padri Fondatori degli Stati Uniti, compreso un
personaggio “beatificato”. Già nel diciottesimo secolo.
Sembrava ieri quando si è aperto il
processo diverso da tutti gli altri. La Costituzione prevede che sia la Camera ad
elaborare i capi d’accusa e al Senato la sentenza. Quest’anno la Camera è a
maggioranza democratica e quindi si è rivestita da pubblico ministero. Il Senato
(maggioranza repubblicana) infilò la toga del giudice e quindi scelse un
magistrato famoso e pensionato, Alan Dershowitz, illustre professore a Harvard
portatore, fra le altre, della convinzione che certi reati non possano essere
esaminati e giudicati dal Parlamento: differenza fondamentale, secondo lui, del
sistema britannico in cui la Camera dei Comuni ha invece l’ultima parola. Imputati,
giuria e telespettatori di mezzo mondo hanno così assistito a uno spettacolo
raro: non sono i magistrati a fare domande ma gli imputati o i difensori ad
aprire il dibattito. Per un reato come l’impeachment ce n’è uno almeno
per ogni “reo” e più che fare domande espone le proprie convinzioni. Alla fine
della seduta si tirano le somme, anche se si rende necessario un bis, e si formano,
come in altri sistemi, i “colpevolisti” e gli “innocentisti”. Nel caso di
questo impeachment, guidati da quasi tutti i “giudici”, risultano finora
in forte maggioranza e di conseguenza il presidente Trump è incoraggiato ad
aspettarsi l’“assoluzione”. Se non ci saranno colpi di scena, insomma, rimarrà il
presidente repubblicano. I democratici sono ovviamente delusi e arrabbiati. Ma pronti
a rifare i conti. Perché entro l’anno (e precisamente il secondo martedì di
novembre) ci sono le elezioni. Per la Camera, per il Senato e per la Casa
Bianca.