Alberto Pasolini Zanelli
Quella che poteva essere l’ultima
giornata di dibattito sull’impeachment di Donald Trump si è estesa e
trasformata in una lotta fra due fazioni, o meglio fra due eserciti. Quella
messa in campo dalla Casa Bianca equivaleva alla scelta dei “professori vivi” e
di fondatori degli Stati Uniti “ovviamente morti”. Ma che si sono presentati in
difesa di Trump servendosi soprattutto delle parole e delle situazioni prese in
esame negli anni dell’indipendenza. Senza riguardi all’orologio: un giurista
famoso come Dershowitz ha parlato oltre due ore e citato, se non addirittura
letto, tutte le pagine dei Padri Fondatori. Riassumendole in una sentenza: non
importa se l’imputato abbia commesso o meno i “reati” di cui è accusato. Non importa,
perché non sono reati. O almeno non lo erano nel momento in cui l’America era
in una culla. Tutti gli interrogativi posti nel procedimento di impeachment
sono una perdita di tempo perché non potrebbero in alcun caso produrre una sentenza.
Per quelle accuse oggi caricate su Trump si sono già occupati i coetanei di George
Washington decidendo, secondo i difensori della Casa Bianca di oggi, che sono cose
di cui si deve occupare il Senato o al massimo la Camera: inutilmente, perché
le cose rimproverate a Trump sono illecite e incostituzionali.
Quello che doveva essere il parere
della difesa è così diventata un’occasione per una lezione di storia, in
assenza però dei giuristi che eventualmente fossero di opinione opposta. Il buon
umore si è così diffuso fra i repubblicani, limitato però per gli sviluppi
paralleli e “esterni”. La “voce” più attesa o temuta non ha risuonato nell’aula,
perché il “presentatore” non si è presentato. Si è incontrato con il
presidente, hanno quasi litigato, lui, John Bolton, ci ha scritto sopra, a
mano, un libro, di cui pare abbia consegnato a qualcuno l’unica copia. I lettori
privilegiati pare abbiano dovuto procedere sul manoscritto. Non c’è stata una
risposta ufficiale fino al calare della notte. La giornata è chiusa appunto
così, rimandando i protagonisti previsti e soprattutto il critico più
criticato, il candidato democratico alla Casa Bianca che sembra prevalere sui
suoi concorrenti. Si tratta naturalmente di Joe Biden, che è stato per otto
anni vicepresidente degli Stati Uniti in compagnia di Obama, ma che ha “permesso”
a suo figlio di andare a fare affari all’estero e, guarda caso, proprio in
Ucraina, con compensi assai rilevanti, dal milione di dollari all’anno come
minimo. Ciononostante papà è stato fino a due giorni fa il candidato più forte
e più pericoloso per Trump, anche perché esperto e soprattutto “moderato” in un
partito che si sta spostando a sinistra.
Lo indicavano quasi tutti i
sondaggi, compreso l’ultimo stilato da un ente culturale che si chiama “Pisa”.
Trump vi compariva come sempre il favorito con l’eccezione, appunto, di Biden,
con quattro “punti” sull’attuale presidente, favorito da 52 elettori su cento
di fronte al 48 per cento di Trump. Poi si sono diffuse, o meglio rafforzate,
le voci e quel presidente che è considerato innocente dalle accuse di cui si è
chiesto il suo impeachment, ha cominciato a soffrire di diffidenze o
altri sentimenti psicologici e così è andato indietro: due punti dietro Biden ma
anche dietro Bernie Sanders, l’ultrasettantenne che, unico, si proclama
socialista. Tre punti su Mike Bloomberg, il miliardario che si proclama
miliardario e, a differenza dei suoi concorrenti, non chiede finanziamenti
elettorali ma ci mette tutto di tasca sua. Trump è poi addirittura dietro i due
democratici giovani: Pete Buttigleg (45 contro 48 per cento) e la quarantenne
molto guardata Amy Klobuchar. E a parità assoluta con Elizabeth Warren, la senatrice
del Massachussetts. La “socialdemocratica” che, fino a pochi giorni prima,
sembrava avviata a crollare. Ed è risalita di colpo. Quando glielo hanno
comunicato, questa anziana professoressa e senatrice ha regalato ai suoi
simpatizzanti uno spettacolo originale: una serie di saltini di gioia.