Alberto Pasolini
Zanelli
Si accelera e
contemporaneamente si allarga l’ennesima crisi mediorientale, “inaugurata” dalla
decisione a sorpresa del presidente americano di colpire l’Iran uccidendo il suo
massimo capo militare e mettendo con le spalle al muro il suo leader politico e
religioso. Da Teheran è venuta poche ore dopo l’attentato una risposta
prevedibile: un controultimatum. La risposta ci sarà, molto presto e con armi e
metodi molto simili a quelli inaugurati da Washington. Sia Trump sia il
presidente Rouhani sono stati fin troppo chiari: l’uno e l’altro hanno dichiarato
che l’emergenza c’è, quello della Casa Bianca subito dopo avere pigiato il bottone
e l’iraniano sul punto di pigiarlo a sua volta. Di conseguenza la crisi si
allarga molto velocemente, coinvolgendo (almeno finora) un numero crescente di
Stati mediorientali, cominciando dall’Irak, luogo dell’attentato aereo e coinvolto
sempre di più data la presenza sul suo territorio di forze armate americane e iraniane,
entrambe impegnate soprattutto al di là della frontiera con la Siria, dove i
jihadisti hanno dominato le scene per diversi anni prima di essere respinti da
una coalizione improbabile che comprendeva gli sciiti guidati da Teheran, i
curdi, distaccamenti militari turchi. Da qualche tempo il campo di battaglia si
stava trasferendo dalla Siria all’Irak, ma soprattutto fra gli Stati Uniti e l’Iran,
appoggiato fra l’altro dalla Russia. La penultima puntata a quel tavolo
infuocato è stata un ultimatum di questi ultimi, ma la crisi si è aggravata al
di là di ogni precedente da quando Trump ha risposto a un ultimatum militare
aprendo il fuoco e uccidendo il capo delle forze armate avverse.
La reazione di
Teheran è stata quella prevista, ma ad acutizzare ulteriormente la tensione è stato
anche l’attentato al vice ucciso l’altro giorno. Il “nervosismo” continua ad
allargarsi di ora in ora, includendo anche la Libia (oggetto di un ultimatum turco)
e perfino Parigi, a Villejuif, con due morti, di cui uno l’attentatore. Da nessuna
direzione arrivano segnali che possano far pensare a un compromesso. Da parte
americana le parole più dure sono venute dal Segretario di Stato Mike Pompeo,
considerato da molti il più intransigente consigliere di Trump e forse l’autore
della sua mossa. Che però è lungi dal trovare unanimità o appoggio in America,
anche per un’altra coincidenza, quella della prima votazione per le imminenti
elezioni presidenziali e della reazione del Partito democratico di opposizione,
aperto dalla dura protesta del presidente della Camera Nancy Pelosi e di quasi
tutti gli altri aspiranti democratici alla Casa Bianca che, forse è solo una
coincidenza, hanno visto moltiplicare nelle ultime ore la raccolta di fondi per
la campagna elettorale, soprattutto dal senatore Bernie Sanders, primo
esponente della sinistra populista.
L’argomento
formale è l’assenza di qualsiasi consultazione da parte di Trump. Anche l’opinione
pubblica si è espressa finora in termini nettamente negativi, con qualche allargamento
anche nelle fila del Partito repubblicano. Ad aggravare la tensione sono venuti
scontri in Siria e in Irak e la decisione del Parlamento turco di autorizzare
il presidente Erdogan ad intervenire in Libia. Fra gli strumenti già “partiti”
per Tripoli ci sono dei “droni”, come monito alla opposta fazione della guerra
civile in corso, con basi in Cirenaica, in contrapposizione anche armata con il
regime di Tripoli. Una tensione generale che non poteva non riflettersi anche sui
mercati finanziari. Wall Street ha iniziato ben presto una manovra di calo,
anche nel settore energetico e petrolifero che di solito provoca invece
sussulti positivi quando le crisi avvengono in quel settore. Trump è rimasto prevedibilmente
fedele alla sua predilezione per le parole forti e non ha ancora mostrato
intenzioni più pacifiche nei confronti di Paesi arabi e musulmani. L’unico ad
offrirgli una chiara solidarietà senza eccezioni è stato come al solito
Israele, ai cui vertici si è per l’ennesima confermato il “falco” Netanyahu. Qualche
segnale diplomatico severo è invece in trasmissione dalla Russia, pochi giorni
dopo che il Cremlino aveva spedito parole di gratitudine alla Casa Bianca per l’“allarme”
a proposito di un complotto terroristico contro Putin. Un rimescolamento
generale che aumenta i rischi per tutti, anche se non si passasse presto a un
allargamento generale del confronto militare fra Washington e Teheran.