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E’ ora che l’Europa reagisca alle decisioni unilaterali di Trump


Caos Medio Oriente: l’impotenza dell’Europa allarga il solco con l’America
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 5 gennaio 2020
L’uccisione di Qassem Suleimani, da molti anni “diabolico” stratega del regime iraniano all’estero, è stata accompagnata da reazioni dettate più dall’emozione che dall’analisi oggettiva degli elementi in nostro possesso. È bene quindi riflettere sulla realtà delle cose e, solo dopo, esibirci in ipotesi e congetture su quanto può accadere in futuro.
Partiamo in primo luogo dal fatto che Trump ha voluto dare una dimostrazione spettacolare e concreta della potenza americana e lo ha fatto con le modalità e in un momento che più hanno giovato alla sua politica interna.
Da un lato ha infatti dimostrato all’opinione pubblica di potere colpire ovunque e con efficacia e, dall’altro, ha voluto prendere queste decisioni senza porsi alcun problema riguardo alle possibili violazioni del diritto internazionale e al futuro delle relazioni fra Stati Uniti e Iraq, paese dove è avvenuta l’esecuzione.
Ha agito unicamente come “comandante in capo,” capace di prendere provvedimenti ritenuti vitali per gli interessi degli Stati Uniti. Tutto questo in un momento in cui i democratici si trovano in un periodo di grande debolezza, dato che stanno portando avanti la difficile strategia del suo “impeachment,” ma non hanno ancora un candidato che possa presentarsi di fronte all’opinione pubblica americana come simbolo di una politica alternativa a quella di Trump.
L’uccisione di Suleimani, al presente, ha portato quindi a Trump indubbi vantaggi politici senza alcuna perdita.
Dobbiamo a questo aggiungere che, di fronte agli interessi elettorali, non è abitudine di Trump porsi il problema delle conseguenze delle sue azioni sugli scenari mondiali.
Anche perché gli aspetti negativi più probabili e immediati di un’eventuale crisi internazionale potrebbero colpire gli Stati Uniti solo in modo indiretto.
Dal punto di vista economico abbiamo ascoltato un coro che prevede un verticale aumento del prezzo del petrolio. Data la dose di irrazionalità presente nei mercati ciò è anche possibile ma, a mio parere, largamente improbabile: di petrolio ce n’è tanto che non sappiamo dove metterlo.
I grandi paesi produttori OPEC e non OPEC (guidati dalla Russia) avevano infatti concordato a dicembre di accrescere le riduzioni a suo tempo decise, portandole da 1,2 a 1,7 milioni di barili al giorno, mentre l’Arabia Saudita si era  addirittura mostrata favorevole a spingere il calo complessivo ad oltre 2 milioni di barili al giorno per sostenere i prezzi anche in vista della quotazione della sua compagnia nazionale Aramco. Immediato il rialzo del greggio Brent da 60 a 66 dollari al barile.
Tutto questo mentre il totale delle esportazioni iraniane, pesantemente ferite dalle sanzioni in corso, sono crollate a 300.000 barili al giorno (rispetto ai 2,6 milioni dell’aprile 2018).
A questo si aggiunge il fatto che gli Stati Uniti, per effetto dello Shale Oil sono ormai autosufficienti nel settore energetico. Anche una non probabile crisi della produzione petrolifera del Medio Oriente sarebbe quindi un problema cinese o, al massimo, europeo. Agli USA, come si riassume in termini popolari, “non ne potrebbe importare di meno”.
Diversamente stanno le cose dal punto di vista politico, anche se l’Iran viene colpito in un momento di particolare fragilità perché il paese è ormai esausto in conseguenza delle durissime sanzioni imposte dagli Stati Uniti dopo il ripudio del trattato nucleare sottoscritto insieme ai maggiori paesi europei.
Pur tenendo conto di questo suo stato di debolezza l’Iran finirà col reagire, non certo con una guerra sul campo ma con azioni di ritorsione o con atti di terrorismo come quelle che sono state portate avanti con successo nei recenti attacchi alle raffinerie dell’Arabia Saudita, eterno nemico dell’Iran. A questo si aggiunge l’incognita di possibili operazioni di “guerra cibernetica”, settore nel quale, secondo alcuni osservatori, l’Iran avrebbe acquisito una particolare esperienza.
Vi saranno quindi azioni e ritorsioni che insanguineranno per lungo tempo il Medio Oriente, accendendo ancora di più le tensioni fra il il mondo degli Sciiti, che dall’Iraq arriva fino al Libano, e l’universo Sunnita che lo contorna. Tuttavia gli Stati Uniti, feriti dalle precedenti esperienze, non invieranno certo truppe in Medio Oriente, se non per difendere le proprie ambasciate.
Nello spazio che va da Riad a Tel Aviv possiamo invece aspettarci di tutto. E queste possibili tragedie avverrebbero a due passi dall’Europa.
Noi italiani siamo particolarmente coinvolti in tutto questo. Abbiamo infatti 3.500 militari che svolgono missioni di pace nei territori resi da oggi più insicuri: quasi 1.000 soldati italiani in Iraq, 800 in Afghanistan e oltre 1.000 in Libano dove, da molti anni, garantiamo la pace in un territorio tra i più delicati di tutto lo scenario mondiale impedendo finora, con una imparzialità e una capacità da tutti riconosciuta, qualsiasi scontro fra gli Hezbollah e Israele.
Le autorità europee e il governo italiano non sono state ovviamente coinvolti nella decisione americana e si sono divisi fra coloro che le hanno acriticamente approvate e quelli che si sono dovuti limitare ad auspicare “moderazione e prudenza” tra le parti in causa.
Nella nostra opinione pubblica si sta tuttavia diffondendo un senso di sgomento sia per l’ennesima dimostrazione di impotenza di un’Europa divisa, sia per il progressivo allargarsi di un fossato tra l’Europa e gli Stati Uniti. Con la presidenza Trump il distacco fra gli interessi europei e gli interessi americani sta aumentando di giorno in giorno, mettendo in pericolo un legame che ha garantito pace e sviluppo economico per un periodo di tre generazioni. Diventa ancora una volta evidente che non possiamo pretendere che altri si prendano cura di noi europei, anche se un rapporto più amichevole e solidale sarebbe utile sia agli europei che agli americani.