Alberto Pasolini Zanelli
Donald Trump ha annunciato una importante
vittoria proprio in un giorno “generoso” di ansie e di preoccupazioni per lui. E
l’ha celebrato in una selva di bandiere: cinesi. Egli ha infatti firmato un
atteso e importante patto commerciale con Pechino, destinato ad attutire almeno
la crescente tensione fra i due Paesi nella concorrenza commerciale con le sue
temute conseguenze finanziarie. Nelle stesse ore (o si può dire anche minuti)
in coincidenza con l’ultimo colpo che gli veniva portato sul terreno sempre più
scottante dell’impeachment. La presidente della Camera Nancy Pelosi ha
infatti consegnato alla Casa Bianca nuovi documenti di accusa e ha nominato una
commissione speciale di sette esperti incaricati di spiegare al presidente e al
Paese perché non si può più rinviare un voto sugli scandali e le accuse che
hanno accompagnato la campagna elettorale di due anni fa e come minimo
avvelenano quella che ora comincia.
La Pelosi ha fino all’altro ieri
consigliato di aspettare perché continuava a lottare a che venissero presentati
al Senato i documenti mancanti che comprendono l’autorizzazione, e anzi l’obbligo,
di ascoltare le testimonianze cui la Casa Bianca si è finora opposta. Quattro sono
gli essenziali, fra cui quella di John Bolton, il più ascoltato come
consigliere militare e quindi anche nelle relazioni con l’estero. La misura è
stata finora bloccata da Mitch McConnell, il leader repubblicano in Senato,
dove il partito di Trump ha, a differenza che alla Camera, la maggioranza: 53
seggi contro 47 dei democratici. Questi ultimi continuano a sperare in qualche
defezione nella maggioranza, almeno quattro rappresentanti. Tre fra essi sono
pensabili, ma il quarto finora non si trova. E comunque il voto definitivo
richiederebbe una maggioranza dei due terzi. Il partito d’opposizione
contemporaneamente è impegnato nella sua gara interna. Ieri si è tenuto il primo
dibattito nello Stato dell’Iowa, tradizionalmente indicativo. Questa volta c’erano
sei concorrenti, quasi tutti dei quali hanno fatto una buona figura, ma hanno
così allargato il campo delle ambizioni, in modo che si comincia quasi da zero.
Il risultato nei sondaggi conferma che l’ex vicepresidente di Obama, Joe Biden,
è in testa nelle preferenze, soprattutto per il compatto appoggio dell’elettorato
non bianco. I suoi concorrenti più vicini sono i due esponenti della sinistra,
Bernie Sanders e la senatrice Elizabeth Warren. C’è anche Pete Buttigieg, che
punta soprattutto sui giovani e che si va rafforzando. Questa volta, però, si
segnala un fatto nuovo: ben due Paperoni si sono presentati nelle liste
democratiche, accogliendo dunque almeno una parte dei programmi di riforma. Uno,
Tom Steyer, ha debuttato nel dibattito. Il secondo, Michael Bloomberg, molto
più famoso e ancora più facoltoso, ha scelto una forma di campagna elettorale
assai particolare: non ha partecipato finora a manifestazioni pubbliche e non
ha sollecitato, a differenza degli altri, i colossali finanziamenti necessari
per questo tipo di campagna. Ha invitato ad elargirli, ma non a lui, bensì al
partito (un po’ all’europea) e quindi a disposizione del candidato quando sarà
scelto, di chiunque si tratti.
Il dibattito inaugurale a Des
Moines è stato incentrato su due temi. Il primo è la riforma sanitaria, con
Sanders che predilige gradualità e la Warren che lo preferirebbe rapido e
radicale. Questa differenza si è sommata, però, ai motivi di un duello molto
più personale: Sanders, il più anziano fra gli aspiranti alla Casa Bianca, ha
contestato che “una donna” possa sconfiggere Trump. La reazione di Elizabeth Warren
è stata comprensibilmente aspra e si è trascinata anche in forma privata una
volta concluso il dibattito. Contemporaneamente in Senato si è ulteriormente
inasprita la polemica: un repubblicano si è spinto ad accusare i democratici di
“voler bene ai terroristi”. Su tutto un altro tono la definizione della
presidente della Camera Nancy Pelosi che ha scelto i “testimoni a carico”. Sono
sette e per questo Nancy è stata paragonata a Biancaneve.