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Quelli con gli scarponi.



Alberto Pasolini Zanelli
La notizia è arrivata alcune ore fa, seguita da vicino dall’apertura di una manovra “diplomatica” per gestire le proporzioni di questo lutto. Secondo le contorte regole di cui questa guerra di Siria è una attiva fucina oltre che un cumulo di contraddizioni. Un soldato Usa è caduto in combattimento, non il primo nei cinque anni abbondanti da che è scoppiato un conflitto mediorientale che si compone di molte guerre separate e contraddittorie. Ma il primo su quel fronte e il primo in quel modo. Cioè combattendo, “con gli scarponi sul terreno” secondo un vecchio modo di dire che è diventato il linguaggio ufficiale del Pentagono e della Superpotenza e che non conta gli altri lutti in uniforme purché si tratti di aviatori. È una “precisazione” figlia di due guerre sbagliate: il Vietnam, unica sconfitta dell’America nella sua storia e l’Irak, quello gestito da un presidente Bush (il figlio) con un apparente successo immediato e in realtà imbucando gli Stati Uniti nelle conseguenze di quella vittoria: il caos e la distruzione di uno Stato già da tredici anni, al punto che è diventato necessario ricostruirlo. Ma non con le truppe di terra Usa, non con gli scarponi che inevitabilmente ogni tanto si trovano a rivestire i piedi di un caduto. In questa guerra terribilmente complicata il presidente Obama ha apportato questa sua scelta, questa sua verità assumendosene le responsabilità, ma senza riuscire a padroneggiare la situazione. Altri soldati Usa sono caduti in questa guerra che non dà segno di finire, ma erano aviatori o istruttori di formazioni “volontarie” sotto alcune delle tante bandiere di questo caos militare e politico. Uno “con gli scarponi”, degno di un comunicato del Pentagono e di tentate spiegazioni. La prima di quelle avanzate si riferiva a una bomba d’aereo, ma specificava che sarebbe venuta dall’Isis. Che però non risulta possedere un’aviazione e allora se è stato un aereo deve essere appartenuto a qualcun altro. Un nemico, forse, ma quale? Data la collocazione del fronte, non dovrebbe essere del governo di Damasco e neppure dei russi. I fronti di questa guerra cambiano rapidamente, si trasformano nel tempo e nello spazio. Il reparto americano era attivo a metà strada fra Raqqa, “capitale ideologica” dell’Isis e la frontiera turca e l’esercito turco è in campo, insieme o contro le milizie curde nemiche della Turchia e guerriglieri tribali che combattono contro i curdi. Truppe turche starebbero avanzando verso Al Bab, molto vicina a Raqqa. Ad Ankara il primo ministro ha confermato il coinvolgimento ma specificato che l’attacco aereo sarebbe stato compiuto non dall’Isis bensì da forze obbedienti al governo siriano riconosciuto.
Un’occhiata alla carta geografica non contribuisce a chiarire le idee. Nella zona settentrionale della Siria la frontiera con la Turchia è divisa in tre zone, quella centrale occupata congiuntamente dall’esercito turco e dalle forze “di opposizione” appoggiate dall’America. Le aree a Est e a Ovest sono in mano ai curdi. Scendendo si incontra l’area occupata dall’Isis, che comprende Al Bab e Raqqa, che verso Ovest fronteggia la zona presidiata dall’esercito siriano, con l’eccezione di Aleppo, che è circondata dai lealisti ma occupata ancora dall’Isis.
Condurre una guerra in una tale area geografica è arduo per i militari ma ancora più duro per i politici e anche per i propagandisti di una o di un’altra fazione in campo. Da più di un anno notizie apparentemente molto precise sui lutti di civili vengono da Aleppo, con un conteggio quotidiano che riguarda esclusivamente i lutti causati dai bombardamenti aerei sui quartieri assediati da parte dei “governativi” dei russi. Dei combattimenti strada per strada si sa poco o nulla e così delle conseguenze dei raid aerei dei nemici della Siria. Riassumendo i comunicati ufficiali si dovrebbe dedurre che si spara solo attorno ad Aleppo e si muore solo da una parte del fronte, come se quelli dell’Isis sparassero in aria.
Ulteriori complicazioni potrebbero essere in arrivo in conseguenza del cambio della guardia alla Casa Bianca. Trump non sembra condividere le inclinazioni di Obama in favore dei “ribelli” non appartenenti all’Isis e pencolare dalla parte del governo di Damasco. Ma contemporaneamente egli sembra propenso a una “linea dura” contro l’Iran, che è il più robusto e deciso alleato di Assad contro gli integralisti ma anche contro. Se le sue tentazioni fossero davvero queste, le mutevoli coalizioni contro l’Isis acquisirebbero un “amico” e perderebbero un alleato. Ma la diplomazia planetaria sembra voler ignorare il vecchio detto “il nemico del mio nemico è mio amico”. E intanto muoiono i bambini, gli adulti, i civili e i soldati di tante patrie. Quelli con gli scarponi.
Pasolini.zanelli@gmail.com