L’America cambia rotta e l’Europa non può più permettersi di restare divisa
Divisi al confronto – Ma l’Europa non pensi di delegare il suo futuro
Dopo lo choc delle elezioni americane siamo entrati nella delicata fase in cui, dai tentativi di spiegazione dell’inatteso risultato, si sta passando alla concreta riflessione sui programmi che costituiranno le linee guida della Presidenza Trump.
Le spiegazioni dei risultati elettorali si sono soprattutto concentrate sulla frustrazione e la paura
di una consistente parte della classe media, sulle delusioni nei
confronti dell’andamento dell’economia, sui limiti della globalizzazione
e sulla crescente differenziazione dei redditi fra i cittadini. Tutto
giusto, ma questi erano i temi classici che in passato conducevano
all’alternanza fra diversi partiti politici. Negli ultimi tempi invece,
in tutti i sistemi democratici, le differenze fra i partiti sono
fortemente diminuite e i programmi si sono standardizzati e omogeneizzati.
In Europa questo ha dato spazio alla formazione di un crescente numero
di governi di coalizione. Negli Stati Uniti, la candidata del partito
democratico, pur tradizionalmente posizionata a sinistra, è stata messa
in croce in quanto rappresentante della finanza e del big business
mentre il suo antagonista, invece di convergere al centro come lei, ha
scelto una posizione estremista.
Questo ci dice che, quando le insoddisfazioni degli elettori ricevono
una risposta non adeguatamente differenziata da parte dei partiti
tradizionali, in Europa si ha come risultato la crescita
dell’astensionismo e dei nuovi partiti estranei al sistema. Negli Stati Uniti lo spazio è stato invece occupato non da nuovi partiti ma da un candidato altrettanto estraneo al sistema.
L’insoddisfazione provoca cioè l’attesa di alternative che, anche se
prive di programmi coerenti e concreti, mandano tuttavia un messaggio di cambiamento radicale.
Non si spiegherebbe in altro modo il rilevante consenso raccolto alle
primarie del partito democratico americano da parte di un candidato che
si definiva “socialista” come Bernie Sanders e il fatto che una parte sostanziosa dei suoi sostenitori non abbia poi votato per Hillary Clinton che, in teoria, avrebbe dovuto essere a loro ben più vicina di Trump.
Pensando
al round di elezioni europee che ci attende, le elezioni americane ci
inducono quindi a porci l’interrogativo se la mancata differenziazione
tra i partiti tradizionali favorirà l’astensionismo e i nuovi partiti o
sarà invece la differenziazione sociale a costringerli a radicalizzarsi,
differenziandosi fra di loro.
Questo sarà il problema europeo dei prossimi mesi.
Negli Stati Uniti, invece, si parla già di squadre e di programmi e la
discussione sarà complessa e lunga perché lungo è l’intervallo fra le
elezioni e l’insediamento del nuovo presidente, fissato per il prossimo
20 gennaio.
Intanto Trump ha messo le mani avanti, assicurando ad Obama di volere
essere il Presidente di tutti gli americani ma lanciandogli
contemporaneamente l’invito a non prendere alcuna decisione di politica
estera per tutto il restante periodo del suo mandato.
E’ da notare a questo proposito che, mentre Trump ha dimostrato una
certa apertura nei problemi di politica interna facendo anche qualche
concessione alla riforma sanitaria di Obama, ha voluto rendere chiaro
che, nel campo della politica internazionale il motto “America First”
guiderà tutta la sua azione. Il che significa forte protezionismo, durezza nei confronti del mondo islamico e uno sforzo militare crescente, unito alla richiesta di un parallelo maggiore impegno a tutti i paesi della NATO.
In politica estera nessun accenno, almeno fino ad ora, ad alcun
cambiamento rispetto a quanto ribadito in campagna elettorale e, per non
essere equivocato, il monito ad Obama di non impicciarsi più di questi
temi. Il viaggio in Europa programmato dal Presidente in carica per i
prossimi giorni diventa quindi una semplice visita di cortesia e di
addio agli alleati europei, dei quali Obama si è ben poco occupato
durante la gran parte del suo mandato, per accorgersi poi (solo negli
ultimi tempi e solo parzialmente) che un’Europa debole, divisa e unicamente obbediente non giova nemmeno agli Stati Uniti.
Nei
confronti dell’Europa vi sarà quindi una politica di Trump che chiederà
a noi più impegno militare e più risorse finanziarie, anche se nessuna
ipotesi viene espressa riguardo ai modelli organizzativi della NATO e al
mantenimento del cospicuo numero di truppe americane sul suolo europeo,
dato il messaggio distensivo nei confronti della Russia
e il ripetuto, e per me corretto, convincimento che, senza un positivo
rapporto con la Russia stessa, non sia possibile risolvere né il
conflitto ucraino né quello siriano.
Vi sono in ogni caso tutti gli elementi per pensare che il periodo in
cui la sicurezza dell’Europa era interamente affidata all’ombrello
americano sia inesorabilmente terminato.
Il dramma è che questo cambiamento coglie l’Unione Europea in uno dei
peggiori periodi della sua storia, incapace di prendere decisioni e
divisa su tutte le politiche fondamentali.
Mi auguro però che la nuova politica di Trump serva almeno a farci capire che il futuro è tutto e solo nelle nostre mani
e che, continuando ad agire separati, non possiamo essere che strumenti
passivi di una politica americana che si presenta sempre più assertiva.
Il motto “America First” significa infatti che non vi possono essere
comprimari perché l’America di Trump non accetta di essere prima a pari
merito.