Alberto
Pasolini Zanelli
Nei prossimi
giorni ed ore le statistiche economiche americane segnaleranno probabilmente
uno scatto all’ingiù della disoccupazione. Dunque un aumento dei posti di
lavoro, sia pure per un periodo che dovrebbe essere molto breve ma che potrebbe
estendersi a settimane e magari mesi. L’affare più urgente degli Stati Uniti è
diventato, o meglio è stato fatto diventare, il controllo dei risultati delle
elezioni presidenziali. Credevate che siano cose del passato e comunque
accertate. Siete sicuri che Trump abbia vinto, al punto che si sta affannando a
scegliere i collaboratori della sua Amministrazione che entrerà in funzione il
20 gennaio. È un lavoraccio per lui: deve sceglierne quattromila in pochi
giorni. Ma non è niente in confronto all’affanno che incombe sugli scrutatori
dei 130 milioni di schede depositate nelle urne l’8 novembre.
Qualche
contestazione e richiesta di controlli c’è sempre, di solito su una gara
conclusa con una manciata di punti di vantaggio in una limitata area geografica.
Ma questa volta assistiamo o assisteremo a qualcosa di nuovo: un terremoto
artificiale. Il lettore ricorderà che Trump è stato eletto con un confortevole
margine di “voti elettorali”, cioè quelli che contano in America, ma è rimasto
dietro a Hillary Clinton per quasi due milioni di voti. È quasi normale, è una
conseguenza più che del sistema elettorale del fatto che l’America consiste di
cinquanta Stati e ognuno ha diritto a due senatori quali che siano le sue
proporzioni e, visto che il numero dei voti a disposizione di ogni Stato
comporta un minimo di “grandi elettori”, gli Stati piccoli sono in qualche modo
avvantaggiati su quelli grandi. “Nani” come il Wyoming o l’Alaska, ricevono un
“premio di consolazione” dai colossi New York, Texas e California. Quindi un
contrasto fra i due modi di contare è sempre possibile, è anzi frequente, si è
ripetuto quest’anno. Ma non è questo a fare scattare la contestazione. In
qualche parte qualche candidato sospetta di essere stato truffato nel conteggio
e presenta reclamo.
E qui comincia il
bello. Nel Wisconsin, Trump ha un vantaggio di 17mila voti sulla Clinton, ma il
ricorso non è venuto da lei, bensì da una certa signora Stein, che si era
presentata per gli ecologisti e ha ottenuto poco più dell’1 per cento su scala
nazionale. Nel Wisconsin sfiora il 2 per cento, ma ritiene di essere stata
danneggiata dagli errori e dai brogli dello scrutinio e quindi ci vuol vedere
chiaro. Per un po’ quelli degli altri partiti hanno sorriso, ma hanno dovuto
richiudere le labbra perché due giorni dopo è scesa in gara anche Hillary
Clinton. Non ha presentato ricorsi, ma ha messo la sua “macchina” del Partito
democratico a disposizione della signora “verde” non solo nel Wisconsin ma
anche negli altri Stati in cui il margine a favore di Trump e dei repubblicani
sia inferiore alla media e quindi se si scoprissero brogli in tutti e quattro
gli Stati contestati, potrebbe risultarne che non lui ma la Clinton è diventata
presidente.
A questo punto
Trump non poteva non reagire e aveva le armi pronte perché durante la campagna
elettorale egli non aveva mai cessato di mettere da parte un pezzettino dei
suoi discorsi per denunciare i brogli che secondo lui venivano regolarmente
commessi dai democratici: in almeno due modi, riuscendo a far annullare schede
“repubblicane” e soprattutto facendo riempire le urne di pezzi di carta firmati
da persone che non hanno il diritto di voto o perché non sono cittadini
americani, o perché vivono in uno Stato e votano anche in un altro o perché non
hanno più diritto di voto in quanto condannati per reati comuni. È una vecchia
accusa contro i democratici perché la loro forza si concentra nelle grandi
città dove è più difficile stabilire la completa identità di una persona. È
mitico da quasi cent’anni quel Richard Daley, sindaco di Chicago, che
concludeva i suoi comizi con l’appello: “Andate alle urne e votate. Votate.
Votate. Votate”. Questi plurielettori, iscritti più volte nelle liste
elettorali con nomi differenti, pare abbiano “regalato” a John Kennedy la presidenza
nel 1960, fornendo un mazzo di voti che gli consentirono di superare Richard
Nixon.
L’ondata
contestatrice ha raggiunto dunque ben presto proporzioni da obbligare i repubblicani
a una contromossa e Trump non ha avuto difficoltà a trovarla: si ricordava bene
delle sue “insinuazioni” durante la campagna elettorale. E allora ha fatto
ricorso anche lui, caso raro, questo sì, di un vincitore che chiede che si
rifacciano i conti. E così l’iniziativa localissima della candidata arrivata
quasi ovunque all’uomo posto rischia di diventare un problema o addirittura una
crisi nazionale.
Volevo dire
internazionale. I sostenitori della Clinton, infatti, da tempo accusavano la
Russia di “interferire” nella campagna elettorale americana, in vari modi che
cominciavano con i calorosi elogi di Putin per Trump e si sarebbero sviluppati
con il patronato del Cremlino alle rivelazioni di Wikileaks su affari interni
del Partito democratico. Che una Superpotenza interferisse nei ludi elettorali
dell’altra sarebbe stato già singolare ai tempi della Guerra Fredda. Adesso è
difficile immaginare Vladimir Putin con le dita sui tasti di un computer che
cerca di portare via delle schede a Hillary Clinton. A questo punto tutti i
partiti (tranne uno, il Libertario, terzo classificato) chiedono di riguardare
e ricontare tutto. Sono convinti di trovare qualcosa? Il portavoce di Hillary
dice che no, che non hanno prove né indizi importanti, “ma qualcosa potrebbe
venire fuori”. Trump dice che la cosa lo interessa non perché si senta minacciato
ma perché se scoprissero i brogli della controparte, allora lui si troverebbe
ad aver vinto due volte: tra i “voti elettorali” e anche nel voto popolare. Chi
avrebbe, dunque, tentato i trucchi? E a questo la crisi internazionale si
estende ancora e diventa interplanetaria. C’è chi ha visto il giorno delle
elezioni una “palla di fuoco” calare sulla Florida e “mandare segnali”. Oppure un
Ufo, che potrebbe essere stato “affittato” o da Trump o da Putin per tentare un
colpo di Stato negli Usa, coadiuvato da diversi hackers, presumibilmente “omini verdi” in “missione” da Marte, dove
al potere potrebbe essere, chissà, un regime ispirato dalla Russia. E cabine
elettorali potrebbero esserci sui satelliti artificiali in orbita, attrezzate
ciascuna con una modernissima macchina dei trucchi.