Alberto Pasolini Zanelli
Con insospettata velocità gli
americani cominciano ad abituarsi all’idea di avere due presidenti. Uno
momentaneamente a Berlino a cercare di portare avanti la politica estera della
Superpotenza, l’altro, sempre momentaneamente, a New York a cercare di mettere
in piedi la struttura del nuovo potere. Una differenza di priorità che almeno
ripara dal pericolo che l’uno o l’altro si ingelosisca o perlomeno si senta
invadere il proprio campo. Non è colpa di Barack Obama e neppure, anche se non
del tutto, di Donald Trump.
È colpa di una certa mania
americana, predilezione per complicare le cose e rivestire ogni intoppo che ne
risulti del panno solenne e quasi religioso dei Padri Fondatori. L’idea che
debbano passare mesi fra le elezioni e l’ingresso del nuovo inquilino della
Casa Bianca è in parte giustificata dalla geografia antica: si ponga il caso
che nell’Ottocento venisse eletto un californiano: ce ne voleva di tempo
per arrivare a Washington a cavallo. Settimane almeno, gli diedero mesi.
Perfino Abraham Lincoln, il cui successo elettorale rese inevitabile lo scoppio
della guerra civile e che abitava in un posto molto più vicino in Illinois,
arrivò a Washington in treno. Non un treno speciale, ma metà di un modesto
scompartimento, diviso con il genio, all’epoca, degli investigatori privati,
Nat Pinkerton. Voci insistenti all’epoca, mai realmente smentite, insinuano
anche che l’“angelo custode” di Lincoln lo avesse convinto a travestirsi da
donna per non essere riconosciuto e incappare nelle ire di qualche sudista.
Allora come oggi si veniva eletti in novembre e si saliva al “trono” in marzo.
Poi con i progressi della tecnologia ci si è permessi di anticipare la
cerimonia a gennaio, ignorando, forse deliberatamente, l’esempio più lucido e
più opposto: quello della Gran Bretagna, che non concede che tre settimane fra
le dimissioni di un primo ministro, l’eventuale ricorso ad elezioni anticipate
e il trasloco dei bagagli e altri oggetti del nuovo premier al numero 10 di
Downing Street. Ma gli inglesi, si sa, hanno un re. Anzi ultimamente una regina
e una prima ministra. Si sa anche che nella residenza di Downing Street abita
un gatto, l’unico che non deve traslocare quando il suo nominale proprietario è
sconfitto alle urne.
Se qualche giustificazione per
l’idea americana della fretta si può trovare, meglio guardare proprio a questi
giorni e alla personalità senza precedenti del nuovo “leader del mondo libero”.
Donald Trump è arrivato a 70 anni sperimentando diversi mestieri, accumulano
ricchezza non senza rischi, difendendosi con le unghie e con i denti, con
coraggio e buona sorte dalle mille insidie nella giungla del business. Si è
occupato di tante cose, tranne una: la politica. Non è stato, si fa per dire,
neppure consigliere comunale e adesso deve fare il presidente. Un compito
immane il cui “antipasto” consiste nel dovere di scegliere e nominare quarantamila
collaboratori grandi e piccoli, dal “manovratore” dell’arsenale nucleare al
custode delle chiavi di un remoto ufficio in qualche angolo del pianeta.
Nessuno pretende che un presidente di fresca nomina conosca tutti o almeno
molti di questi problemi. Lui non ne conosce nessuno e non ha neppure fatto
allenamento, come gli altri, durante la campagna elettorale, perché Donald in
pratica non ne ha fatte, non ha cercato e concluso alleanze, scambio di favori,
sottili ricuciture nella gestione del partito: ha solo lanciato proposte, fatto
promesse, coniato slogan. È stato abbastanza per toccare i cuori di milioni di
lavoratori impoveriti dalla globalizzazione e di uomini e donne della classe
media umiliati dal declino vissuto o incombente. Insomma, del metalmeccanico
del Michigan o dell’equivalente americano della “casalinga di Voghera”. Qualcuno
sussurra ancora che Trump abbia condotto la campagna elettorale fine a se
stessa, senza essere convinto (tranne che nell’ultima settimana o giù di lì) di
vincere o addirittura non lo desiderasse o avesse impostato il tutto come una
gigantesca campagna pubblicitaria per un prodotto che si chiama Donald.
Però ha vinto, schiacciando anzi i
“professionisti”, i “geni” e i cardini dell’establishment contro di lui
coalizzati. Ha vinto e adesso deve imparare un mestiere nuovo. Che è poi una
somma di tanti mestieri. Appena si è sparsa la notizia della sua elezione egli
ha ricevuto chiamate da tanti leader mondiali, primo fra tutti Vladimir Putin,
che volevano congratularsi ed esprimere speranze o, più spesso, preoccupazioni.
Se l’è cavata con risposte generiche e intinte nella buona volontà. Che non
basta. Adesso deve decidere concretamente tante cose: dal come mettere fine
alla guerra di Siria e all’agonia dei reclusi da anni in un ghetto rovente ad
Aleppo, fare da mediatore fra Russia e Ucraina, rafforzare la Nato o imporle
una cura dimagrante, espellere undici milioni di immigranti clandestini (come
aveva promesso all’inizio della campagna elettorale) oppure mandarne via solo
una frazione, tanto per salvare la faccia, far diventare o no legge la grande
voglia di tenere fuori dagli States i musulmani, firmare o stracciare i
trattati di libero scambio, guardarsi nello specchio e magari trovarci la
faccia vera e brutta della globalizzazione. Trump ci deve pensare sopra. A
tenere buoni gli impazienti o i disperati ci pensa l’“ex” Barack Obama. Che in
realtà è ancora l’unico vero presidente, con tutti i poteri e i doveri che ne
discendono. Anche passare due giorni a Berlino con Angela Merkel.