(Dal website di Romano Prodi)
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 6 novembre 2016
Fra due giorni il popolo americano sceglierà
il nuovo presidente. Non mi azzardo in previsioni: mi limito solo a
fare alcune osservazioni su questa incredibile sfida. Incredibile perché
nessuno avrebbe mai pensato ad uno scontro fra l’ex First Lady Hillary
Clinton e un concorrente così fuori dagli schemi e così imprevedibile come Donald Trump.
Eppure la candidatura di Trump avrebbe dovuto stupire tutti ma non noi europei.
Non credo infatti di essere paradossale affermando che il candidato
repubblicano, ad eccezione di quelle che noi chiamiamo “americanate,” si
presenta con le stesse caratteristiche dei “nuovi” leader europei.
Donald Trump marcia perfettamente in linea con le tesi dei partiti
“populisti” che hanno fatto tanta strada nelle ultime prove elettorali
dei paesi del vecchio continente.
L’agenda dei populismi
delle due sponde dell’Atlantico si fonda sugli stessi pilastri: il
ripudio per la globalizzazione, la creazione di muri contro
l’immigrazione, la critica al libero commercio e l’accusa alla Cina di
essere all’origine di tutti i nostri mali.
Una serie di tesi che, se tradotte in realtà, farebbero ritornare la nostra economia cinquant’anni indietro e metterebbero a rischio i pur complicati e fragili processi di convivenza pacifica costruiti in questi anni.
Il che non ci esonera dalla necessità di fare uscire le nostre democrazie
dalle malattie che ne hanno affaticato il cammino, e cioè
l’insicurezza, la disoccupazione, i salari stagnanti, l’aumento delle
disuguaglianze e il prevalere della finanza sulla politica e
sull’economia.
Il successo dei populismi, che pure non riescono a fare proposte concrete e credibili, si fonda esclusivamente sulle gravi inadempienze
dei sistemi democratici. Per questo motivo i populismi di entrambi i
lati dell’Atlantico non hanno bisogno di nessun fondamento ideologico.
Non ne ha alcuno Trump, mentre il successo della Le Pen in Francia è
diventato dilagante proprio quando essa, uccidendo freudianamente il
padre, si è liberata delle sue radici ideologiche filofasciste e ha
potuto raccogliere sia i voti delle paure di destra che delle paure di
sinistra, come ha fatto in questi mesi Trump.
Di fronte a Donald Trump si presenta come candidata (e mi auguro come
vincitrice) una leader che rappresenta, forse anche troppo, la
continuità della politica. Una continuità resa più visibile dal fatto
che è stata la First Lady di un presidente che, pur in circostanze molto
difficili, è riuscito a tenere alto il prestigio e la ricchezza del
popolo americano.
Trump, da parte sua, ha sempre dimostrato un aperto disprezzo riguardo alle alleanze
con i paesi meno forti, su cui tradizionalmente si è fondata la
strategia americana, e ha perfino prospettato l’ipotesi di uno
scioglimento della NATO e il ritiro delle truppe americane dalla
Germania e dalla Corea del Sud.
Qualsiasi sia l’esito delle elezioni americane nascerà quindi l’interesse europeo
ad opporsi alle ripetute ondate di facile populismo nazionalistico. La
nostra sicurezza non potrà infatti essere efficace se rimarrà nelle mani
dei singoli paesi. Nel nuovo quadro post-elezione americana essa potrà
essere garantita solo da un’Unione Europea in possesso delle forze
capaci di difendere la nostra autonomia politica ed economica.
I prossimi mesi vedranno competizioni elettorali di importanza
fondamentale in Austria, Olanda, Francia e Germania, competizioni che,
qualsiasi sia l’esito delle elezioni americane, si svolgeranno in
un’Europa più sola e fragile, a meno che la nostra democrazia non si
dimostri in grado di riformare se stessa in un clima di rinnovata
solidarietà. Non c’è fino ad ora alcun segno di questa volontà di
riforma. Tuttavia la speranza è l’ultima a morire: la vera superiorità
della democrazia è di essere in grado di riformare se stessa. Anche
all’ultimo momento.