Alberto
Pasolini Zanelli
I titoli si
assomigliano ma non sono identici. Perché tutt’altro che identici sono coloro
cui sono dedicati. Nella storia politica americana ci sono molte Hillary
Clinton (tutte tranne lei di sesso maschile) e pochissimi Donald Trump. Che poi
i due vengano contrapposti nella finalissima della maratona politica per la
Casa Bianca non era mai successo. Né si era vista una campagna elettorale come
quella che si concluderà fra pochi giorni, in cui tutte le sorprese si sono
accumulate in un campo, quello repubblicano e quasi tutte le previsioni sono
state confermate in quello democratico. Comprese le svolte di opinione
pubblica, che appaiono essersi rafforzate e inasprite proprio negli ultimissimi
giorni, al punto di mettere in pericolo la saggezza convenzionale, che per
tutto il resto di una maratona durata quasi un anno e mezzo aveva fornito i
muri, o almeno le transenne, per mantenere le previsioni nel campo del “normale”
e dunque prevedibile. Oggi come oggi si può predire cosa farà Hillary Clinton
alla Casa Bianca se vincerà, non si può ripetere questa formuletta sostituendo
Hillary Clinton con Donald Trump, ma non si può neanche escludere che a
quest’ultimo riesca di spezzare i pronostici e di vincere allo sprint, negli
ultimi metri o secondi. Tutto quello che si può fare è mettere in un titolo è
“Che cosa farebbe Donald Trump se vincesse”.
Ciò detto, ne
sappiamo ben poco. L’unico campo in cui, mettendo in pensione le regole e le
saggezze convenzionali, qualcosa si può prevedere e dunque, con le debite
precauzioni, affermare è che una Casa Bianca Trump terrebbe una rotta molto
diversa da quella della “dinastia” Clinton nei rapporti con la Russia. Non
occorre prendere alla lettera tutte le dichiarazioni, i pronunciamenti e gli
slogan del candidato repubblicano per disegnarvi sopra una linea di politica
estera. Tuttavia in quasi tutte le sue “incursioni” in questo campo Trump ha
proposto o almeno ipotizzato iniziative e reazioni che sono all’opposto di
quelle perorate dal candidato democratico. La Clinton, pur guardandosi
dall’usare queste due parole, intende muovere lo sterzo in direzione di una
riedizione della Guerra Fredda, in misura certo minore e senza l’intenzione di
farla culminare in uno scontro militare. Ma lei appoggia l’Ucraina contro la
Russia, le minoranze in Crimea, una soluzione in Siria completamente opposta a
quella desiderata dal Cremlino, il mantenimento o l’inasprimento delle sanzioni
economiche contro Mosca, una “fotografia” della Repubblica Federativa Russa che
assomigli a quella della defunta Unione Sovietica. La “linea Hillary” è più
netta e prevedibile se si ricordano le sue iniziative nel quadriennio in cui la
Clinton è stata Segretario di Stato di Barack Obama, succeduta poi durante il
secondo “mandato” da John Kerry, diplomaticamente ma coerentemente su un linea
diversa. Quello che si prevede per Mosca vale anche per la Siria, l’Irak, l’Arabia
Saudita, forse l’Egitto e certamente l’Iran. Si delinea una continuità che
conduce semmai alla linea di George W. Bush più che a quella di Obama, che ha
soprattutto cercato di mediare fra due linee, due visioni e forse soprattutto
due istinti.
Ne dovrebbero,
sempre nell’ipotesi di una vittoria di Trump, subire in qualche modo le
conseguenze gli alleati europei. Non sul piano dei rapporti bilaterali, che
anzi Trump sembra prediligere, ma nell’ambito della Nato. Se le sue
affermazioni sono state meditate e tenute a una coerenza (purtroppo non è
facile dirlo date le abitudini e lo stile elettorale del candidato repubblicano),
l’Alleanza Atlantica potrebbe venire condotta da Washington verso una “cura
dimagrante”. Finanziaria, perché Trump ha denunciato più volte l’insufficienza
dei contributi alla cassa comune di difesa, perché anche nella sfera economica
si avverte nelle parole del candidato repubblicano una vaga nostalgia
dell’“autarchia” come difesa del bilancio nazionale Usa e dei posti di lavoro,
ingigantito il primo e erosi i secondi in conseguenza della globalizzazione e
infine di nuovo strategica in quanto presuppone un capovolgimento di un trend
planetario di oltre un quarto di secolo, di una difesa (se non nostalgia) del
Mondo di Ieri. Almeno in questo Donald Trump è riconoscibile come un
“conservatore” e quindi come erede di una tradizione repubblicana, per il resto
spesso irriconoscibile nello stile e nel contenuto dei suoi proclami. A
cominciare dall’intenzione appassionata di innalzare un muro come confine fra
gli Stati Uniti e il Messico, rappresentante e tramite dell’ondata migratoria
da tutta l’America Latina. Meno nota, o meno chiara, l’intenzione di questo
possibile (anche se non probabile) presidente Usa nei confronti del nostro problema
migratorio euroafricano, molto più grave e complesso dell’affluenza (oltretutto
molto rallentata) di americani del Sud nell’America del Nord. Questa è oggi
forse l’unica risposta che possa darsi chi si pone la domanda di cosa farebbe
Donald Trump se martedì prossimo sarà eletto presidente degli Stati Uniti.