Nuovi scenari – A Cina e Usa non conviene una guerra commerciale
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
Il ciclone Trump non ha sconvolto solo le sponde dell’Atlantico ma ha portato anche in Asia uno tsunami di incertezza che obbliga a ripensare a molte politiche fino ad ora ritenute scontate. Pur in modo come sempre soffuso e ovattato, anche in Cina ci si interroga con molta apprensione sulle prospettive di cambiamento nei rapporti politici ed economici con gli Stati Uniti.
A Pechino è vista con grande soddisfazione la sepoltura definitiva del TTP, cioè del trattato commerciale che intendeva legare gli Stati Uniti con un vasto numero di Paesi del Pacifico, escludendo ed isolando la Cina. Contro questo trattato Trump si è pronunciato in ogni giorno della campagna elettorale: la sua definitiva cancellazione non può che fare piacere ai reggitori del Celeste Impero.
A destare invece estrema preoccupazione nell’establishment cinese è un altro slogan della campagna elettorale di Trump, quello con cui il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America indica la concorrenza cinese quale causa principale, se non unica, della perdita di posti di lavoro e dell’impoverimento della classe media americana.
La preoccupazione deriva ovviamente dal fatto che Trump ha regolarmente accompagnato a quest’analisi la proposta di imporre altissimi dazi doganali (fino al 45% del valore) alle importazioni provenienti dalla Cina.
La morte del TTP è un fatto ormai scontato, e quindi un vantaggio acquisito da parte della Cina ma, nonostante quanto ripetuto in campagna elettorale, non appare né facile né conveniente per nessuno l’inizio di una guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina. In primo luogo perché il governo cinese dispone di una spaventosa quantità di riserve monetarie (intorno a 3000 miliardi di dollari) la maggior parte delle quali è in titoli del debito pubblico americano: una specie di bomba nucleare che, se buttata sul mercato, finirebbe col devastare il sistema economico mondiale con danni incalcolabili all’economia americana e non solo americana.
Molte delle esportazioni cinesi verso il mercato degli USA sono inoltre generate da imprese americane che hanno investito in Cina e che spesso utilizzano componenti fabbricati negli Stati Uniti.
Una guerra commerciale globale farebbe troppi danni ad entrambi i protagonisti: se vi saranno tensioni e dispute commerciali queste, per il bene di tutti, dovranno essere limitate ad alcuni settori o ad alcuni prodotti specifici. Tuttavia queste controversie non globali, ma particolari hanno una loro insita pericolosità perché, anche da piccoli episodi, cominciano spesso le grandi guerre. Fino ad ora prevale tuttavia la sensazione che, almeno in una fase iniziale, le eventuali frizioni particolari nascerebbero più da obiettivi tattici che strategici. Trump sarà però costretto a procedere con molta prudenza, anche perché la Cina sta già operando per negoziare accordi commerciali con altri paesi asiatici e con l’Australia, escludendo gli Stati Uniti.
Non genera infine molta paura a Pechino la minaccia di ritorsioni nei confronti della Cina accusata di manovre volte a svalutare in modo strumentale la propria moneta per favorire le esportazioni. Una tesi oggi meno efficace anche perché la Cina, pur avendo molte colpe in materia, adotta in questo momento la politica opposta, sostenendo il cambio del renminbi in modo da ostacolare la fuga di capitali che tanto sta preoccupando il paese. Si tratta cioè di manipolazioni in senso opposto a quello biasimato dagli Stati Uniti.
Per questo motivo i media e gli osservatori cinesi sono abbastanza tranquilli nei confronti di Trump: lo considerano pragmatico e senza ideologie e pensano perciò che, con lui, si potranno fare accordi pur senza costruire alleanze. Viene addirittura messo in rilievo come i grandi piani di rilancio delle infrastrutture americane possano essere un’occasione per la Cina di partecipare a questi progetti, data la sua grande esperienza nel realizzare opere pubbliche che, per dimensione, non hanno alcun precedente.
Se vogliamo quindi fare una sintesi delle prime reazioni cinesi all’avvento di Trump possiamo concludere che i cinesi lo considerano un politico con cui, pur nella diversità, si possono ipotizzare rapporti meno tesi rispetto a quelli avuti con i precedenti presidenti e a quelli che si sarebbero potuti avere con la presidenza Clinton.
Si tratta naturalmente di prime prese di posizioni di vari osservatori, in assenza ancora di una posizione ufficiale. Anzi, se guardiamo ai fatti, le prime reazioni vanno proprio in segno opposto, perché, tra Cina e Stati Uniti, è già nata una tensione di non poco conto, in conseguenza del lungo colloquio che si è svolto a New York fra Donald Trump e il primo ministro giapponese Shinzō Abe. Ricevere il primo ministro giapponese come primo esponente politico straniero è ritenuto il massimo dispetto che si possa fare alla Cina, non solo per le antiche inimicizie esistenti fra Cina e Giappone ma anche per il ruolo duro e intransigente che il primo ministro giapponese ha sempre mantenuto nei confronti della Cina.
Le conseguenze del ciclone Trump sono quindi solo all’inizio e, per molta parte, imprevedibili. Aspettiamoci quindi molte sorprese e, soprattutto, almeno in questa prima fase, molte contraddizioni.