Trump Tower New York
Alberto Pasolini Zanelli
C’è un vuoto di potere a
Washington. E un aggregato di potere quasi senza precedenti a New York. La
residenza presidenziale è deserta: l’inquilino ancora per due mesi padrone di
casa se ne è andato in Europa a far due chiacchiere molto pensose e
patriottiche con i colleghi di Berlino, Parigi e Londra. Il suo successore
designato dagli elettori ha deciso di condurre tutte le operazioni necessarie a
casa propria a Manhattan. Una “casa” che è un grattacielo di cinquantotto piani
che inalbera il suo nome e cognome a caratteri che sarebbe ridicolo definire
cubitali. Il suo indirizzo è la Trump Tower. Ci si è rifugiato anche dalla
frenetica atmosfera di Washington, infestata nei giorni scorsi dai suoi
consiglieri e aspiranti tali a caccia frenetica di una fetta di potere prima
del 20 gennaio, giorno del trasloco. Sono rimasti a Washington alcuni tra i più
assetati di questa bevanda intossicante a disposizione per altre otto
settimane. E il “superalbergo” è diventato una fortezza quasi vietata ai
turisti e ai newyorkesi dediti allo shopping. Il New York Times racconta la vicenda di una signora che cercava
qualcosa in un negozio di Gucci all’angolo della strada, ignorando il fatto che
quel Gucci è dentro la Trump Tower e quindi ha dovuto sormontare tre o quattro
controlli di sicurezza. A Washington, pare, si circola meglio del solito, persino
in Pennsylvania Avenue dove è la Casa Bianca.
Altrettanto fitta è la ressa ai sistemi
di comunicazione, perfino all’antiquato telefono. Chiamano da tutto il mondo e
Trump deve decidere ogni volta se alzare o meno il ricevitore. La maggior parte
dei messaggi d’oltremare sono offerte, non pochi sono avvertimenti o
addirittura moniti. Si distinguono in quest’ultima categoria gli europei, anzi
gli alleati della Nato, che esprimono in qualche caso apertamente i propri
timori o almeno perplessità. Uomo di destra (parecchi dicono di estrema destra)
Trump è noto per la sua freddezza nei confronti dell’Alleanza atlantica,
apertamente ma non soltanto per i suoi costi che egli ritiene esorbitanti e per
la eccessiva “parsimonia” dei soci. Durante la campagna elettorale, ma
soprattutto all’inizio, egli ha detto e ripetuto che la Nato costa troppo e che
se i soci non aumentano i loro stanziamenti l’America dovrà ridurre i propri. Le
reazioni dentro l’alleanza sono tutt’altro che unanimi, come sta constatando
Barack Obama nel suo piccolo “ultimo giro” d’Europa, nelle cui capitali, da
Atene a Berlino, egli raccoglie inquietudini e cerca di distribuire fiducia. Ci
sono i Paesi dell’Est che, in prima fila la Polonia e i Baltici, temono la
Russia; altri, soprattutto nei Balcani, vedono invece l’occasione per una nuova
“distensione”. Qualcuno va oltre, come ad esempio la Bulgaria il cui
neopresidente si è spinto fino a inaugurare in russo il suo discorso
inaugurale; imitato poche ore dopo dal leader, anch’egli appena eletto, della
Moldova. I più allarmati sono i tedeschi, che si sono spinti molto avanti nell’irrigidimento
nei confronti di Mosca e inoltre temono che gli Stati Uniti si tirino indietro,
nel qual caso Berlino dovrebbe assumersi responsabilità molto maggiori e più
costose. Il governo francese ha ansie di altro genere: l’anno prossimo si
eleggerà il nuovo presidente della Repubblica e il trionfo di Trump in America
gonfia le vele di Marine Le Pen, che per molti aspetti ha un programma simile e
potrebbe diventare la Trump parigina.
Più calmi sono gli inglesi, attivi nel
proporsi come mediatori fra le due sponde dell’Atlantico, utilizzando una
posizione più rischiosa ma più “sciolta” dopo la decisione di uscire
dall’Europa. Fuori dall’Europa anche il Giappone mostra inquietudine e fretta e
il primo ministro Abe fa rotta per Washington. Ma l’interlocutore principale è
ormai diventato la Russia. Non ci sono dubbi che la posizione di Trump sui
rapporti tra Washington e Mosca è diversa da quella di Obama e molto diversa da
quella che sarebbe stata di Hillary Clinton: le offerte del Cremlino lo trovano
ben disposto, al punto da vedere il neoeletto in forte contrasto con l’ala
“istituzionale” del suo partito. Anche per questo urge una sua scelta fra i
numerosi aspiranti alla carica di Segretario di Stato, alcuni dei quali
“falchi” dichiarati come colui che ancora ieri era considerato il favorito,
cioè John Bolton, ma anche Rudy Giuliani. Una prima resa dei conti riguarderà
come al solito la Siria. Assad è molto incoraggiato dalla vittoria di Trump e
fiducioso che l’America finalmente ritiri l’appoggio di cinque anni ai
“ribelli”. Preoccupati sono invece l’Iran e la Turchia. A una “svolta”,
consigliata da tanti fattori, si oppongono diversi impegni internazionali discutibili
ma radicati nel tempo.
Sono tanti, dunque, gli argomenti
da discutere, per ora nella “fortezza” privata di Donald Trump a Manhattan e
domani alla Casa Bianca, dopo che il neoeletto sarà stato insignito del potere
e avrà pronunciato il giuramento di rito. Una vignetta del New Yorker ha riassunto giorni fa la situazione mostrando Trump e
il suo vicepresidente Pence affiancati al personaggio incaricato di “amministrare”
la cerimonia, un occhio sulla Bibbia. Ma non è il presidente della Corte
Suprema di Washington: è Vladimir Putin.