Alberto
Pasolini Zanelli
Sono gli alleati più alleati del mondo. Li
rendono tali non soltanto gli interessi comuni, ma anche i fili di una
comunanza ideologica che ha perfino aspetti religiosi. Quando si viene al
dunque in una crisi internazionale, sono sempre dalla stessa parte, la
Superpotenza e uno degli Stati dalle dimensioni più ridotte. Sono gli Stati
Uniti e Israele.
E adesso stanno litigando. Il linguaggio
che si sono scambiati i due governi per alcuni giorni è stato il più aspro da
quando lo Stato ebraico esiste. Le parole e i silenzi. La innegabile
interferenza di Benjamin Netanyahu nella politica americana al servizio della
campagna elettorale che si conclude a Gerusalemme, i silenzi di Barack Obama e
dei suoi collaboratori eloquenti quanto le più aspre parole. Non si era mai
visto prima un primo ministro di Israele in visita a Washington senza essere
stato invitato dal presidente americano, in una forma però che non si può
definire privata perché avvenuta su invito del partito di opposizione, il repubblicano,
che sta conducendo una offensiva “totale” contro Obama e il Partito
democratico. L’ospite, ben conosciuto negli ambienti politici Usa anche come
rapporti personali, era abituato ad accoglienze al di sopra delle parti,
stavolta è stato applaudito dagli uni e confinato nell’indifferenza apparente
degli altri, in realtà del loro risentimento. Il Partito repubblicano Usa è
sceso in campo per difendere la presidenza del Likud a Gerusalemme e ricevere
in cambio un appoggio contro la Casa Bianca. Un comizio praticamente elettorale
al servizio di una campagna elettorale diecimila chilometri più in là.
Ma le forme non sono tutto. Lo scontro tra
governi alleati da sempre verte su un contrasto radicale di valutazioni.
Investe una crisi triplice, nella forma e nella sostanza. La prima riguarda il
futuro della Palestina, la seconda l’insieme del Medio Oriente, la terza ha
dimensioni mondiali. La prima crisi è regionale, la seconda esistenziale, la
terza planetaria. La prima richiederebbe una visione comune almeno dei pericoli
e quindi un’azione diplomatica a scadenza media o breve e riguarda la Palestina
nel suo complesso. Essa si aprì con la nascita stessa di Israele, con una
guerra e la vittoria di Israele e con la necessità di dare uno status ai
soccombenti. La soluzione che più o meno tutti dicono di volere si chiama “due
Stati”, cioè la costituzione di un’entità politica “araba” nel territorio. Se
ne parla ma non ci si arriva perché questa esigenza contrasta con il cardine
della seconda crisi: quella di sicurezza per lo Stato ebraico, che richiede non
soltanto una frontiera e una formula condivisa dai due diretti belligeranti, ma
un contesto di stabilità. Israele ha dimostrato più volte di avere una netta
superiorità militare nei confronti dei vicini, ma potrebbe essere vulnerabile a
gesti ostili dai margini di quell’area, oggi in primo luogo dalle ambizioni
nucleari dell’Iran. Non ci sono questioni territoriali fra Gerusalemme e
Teheran, ma il possesso della bomba H darebbe agli iraniani una posizione di predominio
nel mondo arabo-musulmano e renderebbe, col tempo, incerto l’esito di una
guerra.
Di qui la formula americana: un Iran
“nucleare” tranne che per la “bomba”. Gli eredi di Khomeini sembrano ora
disposti ad accettarla, ma Israele, o perlomeno i “falchi” che oggi vi sono al
potere, non depongono la loro diffidenza e intransigenza, soprattutto
nell’imminenza di un accordo fra Teheran e Washington cui Obama a quanto pare
aspira, soprattutto dopo che nel Medio Oriente si è levato un nuovo incubo:
quello che ha per simbolo il Califfato e per contenuto una “guerra santa”
dell’estremismo sunnita contro i fedeli di ogni altra religione, dagli ebrei,
ai cristiani, ai musulmani come gli sciiti di Iran. La Casa Bianca si mostra
convinta che per dissolvere questo spettro sia pensabile e anzi necessaria una
collaborazione fra tutti coloro che ne sono minacciati, inclusa la teocrazia
più tradizionale insediata a Teheran. Una collaborazione militare che pare già
in corso, sia pure sotto formule “intermedie”: attraverso egiziani o iracheni
armati dall’Iran. E qui si riaccende un antico incubo di Gerusalemme, l’erosione
dei suoi margini di sicurezza. I
Netanyahu temono di essere messi in secondo piano in questa nuova situazione.
Obama e i suoi collaboratori intravvedono l’eventualità che la “guerra
mondiale” di difesa contro i tagliagole dell’Isis crei una situazione in cui
questi ultimi potrebbero essere considerati da Israele come il male minore. Che
la crisi mondiale divenga incompatibile con la “sicurezza assoluta” dello Stato
ebraico. Un’ansia che va rispettata ma che è arduo combinare con le opportunità
e le necessità di una Superpotenza che ha il diritto e il dovere di tenere
d’occhio il mondo. Il contrasto è antico, contemporaneo alla Grande Amicizia e
ogni tanto riemerge. Mai con la franchezza pericolosa di questi giorni.