Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Gli animali non
smettono di inquietarci, quasi ne stessimo scoprendo soltanto ora l’esistenza.
L’ultima scoperta riguarda le aragoste, alle loro curiose abitudini
prealimentari, quel loro modo di annusare il fondo del mare alla ricerca del
cibo, che nelle mani di studiosi pochissimo disinteressati ha condotto alla
scoperta e allo sviluppo di una tecnologia militare, che permetta di scoprire mine
ed esplosivi nascosti da una distanza di sicurezza, mandando avanti quei crostacei,
appunto, ad aprire i reticolati. Qualche tempo fa avevano scoperto il delfino
assassino, poi la piovra suicida. Il primo, prediletto dagli antichi poeti
dell’Ellade e dai frequentatori dei luna park della Florida, pare si dedichi
ogni tanto a “pulizie etniche” dei rivali o addirittura elimini i propri figli per
restituire la sua compagna dagli ormoni immemori ai doveri di alcova. La
seconda, disperando di uscire mai dal soffocante ergastolo di una vasca di
acquario in California, si sarebbe servita di uno dei suoi otto tentacoli per
stappare il tappo della vasca, far defluire tutta l’acqua e annegarsi all’asciutto.
Prima ancora avevamo appreso di una cattiva orsa ladra di formaggi ai turisti
di Yellowstone e dell’eroica gorilla di Chicago, che salvò la vita a un bambino
di 3 anni precipitato dentro la sua gabbia.
Quanto basta e
avanza per intorpidire coscienze e renderle sempre più vulnerabili al virus
nobile dell’“animalismo”, uno spasmo che si diffonde dall’America nel pianeta e
disturba gli animi sensibili. Ti dicono sempre più spesso che il tuo pasto ha
causato a un essere vivente di soffrire la morte per te. Parole meno
drammatiche ma vere. La tua cattiva coscienza (che diventa cattiva coscienza e
dunque ti dimostra che sei buono: i cattivi non la possiedono) si nutre delle
parole di convitati illustri all’eterno banchetto della vita. Gente come Kant,
Bentham, Tomaso d’Aquino. Filosofi, non profeti: tranne il buddhismo, le religioni
riguardano l’uomo e Dio, non gli animali che un tempo si era sicuri facessero
parte della materia e che i Numi si facevano servire alla mensa dei “sacrifici”.
Parlano ora gli allievi. Per Kant un professore di filosofia dell’UniversitÃ
del North Carolina, Tom Regan. Afferma che l’Imperativo Categorico è anche il
rispetto di un valore assoluto che si chiama diritto alla vita e che vale per
tutte le specie. Chi mangia una bistecca è intrinsecamente complice
dell’uccisione di un bue. A trattenerci non deve essere la pietà , la
preoccupazione “superficiale” per le sofferenze della vittima, ma il dovere, la
ragione etica che non ammette eccezioni. Il portavoce di Bentham è più
moderato, rassicurante, pare addirittura di manica più larga. Invece di
fulminarci con un imperativo, ci coinvolge con una serie di pacati
interrogativi: se gli animali sentano il dolore e se il piacere che venga alle
nostre papille gustative nel masticarne le spoglie giustifichi la sua
sofferenza. Due scuole filosofiche entrambe avvocate di clienti che non
potranno ringraziarle per il loro interessamento, due portavoce di chi non ha
voce, due scuole che hanno sempre più adepti. Almeno quattrocentomila i seguaci
di Peter Singer, arrivato dall’Australia a produrre un suo Manifesto, che si
intitola Liberazione Animale che è in
gran parte una denuncia: un elenco delle crudeltà e degli abusi commessi nei
secoli contro le altre specie, dalla corrida alla caccia, all’allevamento
alimentare, alla vivisezione. Un suo adepto, Gary Francione, dirige la “Clinica
legale per i diritti degli animali” alla Rutgers University, ammonisce che la
pietà non basta ma bisogna riconoscere il valore della vita delle altre specie
e dunque gli esperimenti scientifici non vanno umanizzati ma aboliti, “fino a
che i frutti di un esperimento sui conigli non vadano a vantaggio dei conigli e
non degli uomini”. Una certa Anne Newkirk nega addirittura che esista il
diritto alla vita per l’uomo, che lei definisce “cancro del pianeta”. Sofismi contro
cui la coscienza sente il bisogno di corazzarsi. Nessuno nega agli animali la
capacità del dolore, che l’anima conosce prima del corpo, ma giorno verrà che
il resto della Creazione riacquisterà tutti i suoi diritti. Sino a quando ci
chiederemo non soltanto se gli animali possano “ragionare” ma semplicemente se
possano soffrire.
E non ci si limita
alle meditazioni intime: si comincia ad adire le vie legali. È stata depositata
di recente alla Corte Suprema dello Stato di New York una richiesta di
“scarcerazione” in nome dei diritti umani del gorilla Tommy illegalmente in
stato di arresto in una gabbia dello zoo. La richiesta è che gli si aprano i
cancelli e lo si metta “in libertà ” in una specie di “santuario”. Fra i
sostenitori della richiesta c’è Laurence H. Tribe, un “astro” della FacoltÃ
Giuridica di Harvard. Egli specifica che Tommy “non è un oggetto legale che
possa essere posseduto o di cui si possa rispondere: egli è una persona legale,
autonoma, dotata dei diritti umani fondamentali, fra cui quello di non essere
incarcerato”. Non è una richiesta bizzarra come può sembrare e non è neppure
una “americanata” priva di precedenti. Una forma di diritti “umani” legali a
una scimmia sono già contenuti in una legislazione approvata nel 2008 dal
Parlamento spagnolo. L’ultima testimonianza è più alta, se si vuole più lontana
ma finora insuperata quanto autorevolmente sintetica. “Il Paradiso – ha appena
finito di dire Papa Francesco – è aperto a tutte le creature di Dio”.