Alberto Pasolini Zanelli
Questa volta sono
tornati in forze gli americani in Irak. Non più soltanto con gli aerei e i
drones e gli elicotteri di salvataggio dei profughi, ma in pieno assetto di
guerra, per ora in misura limitata ma con obiettivi assai più ambiziosi
rispetto a quelli che si potevano riscontrare nei primi assaggi e sondaggi.
Naturalmente nel settore più cruciale di quello che si poteva chiamare fronte
se non ti trattasse invece di segmenti geografici, militari e politici. La
“nuova” campagna comincia lassù, nel triangolo Mossul-Tikrit-Ninive, posato
accanto alla frontiera siriana e in posizione strategica. La decisione l’ha
presa direttamente Obama, ponendovi una sorta di impegnativa controfirma. Anche
perché se la missione è una gli obiettivi sono, in realtà, due forze
contrapposte: da una parte le milizie del Califfato da mesi all’offensiva in
quella zona, dall’altra i più agguerriti fra i loro nemici, gli iraniani. Una
situazione bellica paradossale e pressoché unica ma che ha le sue radici, se
non giustificazioni, in una “mappa” innegabilmente surreale: da una parte ci
dovrebbero essere le truppe dell’Irak, il Paese aggredito e dall’altra i
“rivoluzionari” dell’Isis. In realtà le truppe di Bagdad, nonostante i
rifornimenti bellici americani, non sono state finora in grado di reggere il
confronto e se i jihadisti non sono dilagati nell’intera Mesopotamia lo si deve
a guerriglieri di altro “colore”: curdi attorno alla loro piccola madrepatria e
soprattutto sciiti armati appoggiati e foraggiati dall’Iran. Il cui peso
dovrebbe essere decisivo se non intervenissero considerazioni di strategia politica
e non militare. A Teheran non deve infatti essere permesso di vincere una
guerra grande o piccola, almeno non in questo momento in cui esso è nel mirino
di una tensione che, soprattutto agli occhi di qualcuno a Washington, è più
importante della stessa offensiva del Califfo.
Obama probabilmente
la pensa così ma le opposizioni a Washington sono forti e collegate – lo si è
visto anche nelle ultime settimane – con la situazione di Israele, che si sente
soprattutto minacciata dai progetti iraniani di armamento atomico, che da anni
hanno fra l’altro prodotto sanzioni americane e minacce da Gerusalemme di
un’azione preventiva. Per uscire da questa “alternativa del diavolo” gli Usa
conducono da anni trattative per convincere il regime degli ayatollah a
rinunciare a darsi la Bomba. Una decisione dovrebbe essere presa fra pochi
giorni e Obama deve tenere conto delle pressioni interne ed esterne, mai così
pesanti e palesi come nel “raid” preelettorale di Netanyahu al Congresso di
Washington e nel messaggio dei “falchi” repubblicani al presidente iraniano,
invitato a non fidarsi della Casa Bianca e a non firmare un trattato che loro,
i “falchi”, si affretterebbero a stracciare se e quando tornerà il loro turno
di potere. Obama ha denunciato con parole severe quello che considera un
“ricatto” ma accompagna le parole con un’azione dimostrativa che dovrebbe
tranquillizzare anche quella sua controparte. Le bombe dal cielo di Tikrit
cadono così sui jihadisti ma, lungi
dall’aiutare i loro nemici in campo, li ammoniscono a “non esagerare”, a non
vincere troppo. Alleati di fatto e nemici del cuore, americani e iraniani si
sforzano, pur combattendo, di trovare una formula che non li veda proprio dalla
stessa parte, soprattutto non visibilmente. Ecco il perché di mosse da
“minuetto” guerriero, come l’annunciato spostamento del generale Qassim
Suleiman, comandante del distaccamento delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche
dell’Iran, dall’area di combattimento. Se lo seguisse almeno una parte delle
sue truppe, gli americani potrebbero avere una chance di prendere due piccioni
con una fava, respingendo le milizie dell’Isis e guadagnando prestigio a spese
degli iraniani. A convincere Obama a provare è stato il timore che fossero gli
Usa, altrimenti, ad essere marginalizzati. In un modo o nell’altro la Casa
Bianca sa di doversi attendere nuove critiche. Non solo da parte dei “falchi”.
È stato l’ex ministro della Difesa Robert Gates ad ammonire il presidente che chiunque
gli consigli di tornare a mandare un’armata di terra a combattere nel Medio
Oriente “farebbe bene a farsi visitare da uno psichiatra”. Ma un altro ex di
rilievo, John Bolton, che rappresentò gli Stati Uniti all’Onu durante la
presidenza di George W. Bush, ha ribadito che il vero e principale nemico dell’America
non sono i tagliagole dell’Isis, bensì coloro che nel mondo arabo si schierano con
Teheran, a cominciare dagli sciiti. Quella secolare guerra di religione Bolton
ritiene vada considerata un potenziale conflitto mondiale e gli sciiti sono il
nemico. “Per fermare la bomba iraniana, bisogna bombardare l’Iran. E presto”.
Pasolini.zanelli@gmail.com