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“Il Mondo Nuovo”



                                                                      
                                                       TIEPOLO, VENEZIA, l’AMERICA E OGGI
                                                            Un quadro del 1700  parla di noi
 Alessandro Petti

C’è un grande affresco, avveniristico, modernissimo, visionario, dipinto dal celebre pittore veneziano Giandomenico Tiepolo a fine 1700 che, nonostante i suoi ben oltre duecento anni, è di una attualità straordinaria: perché parla anche al nostro tempo, perché parla di oggi. Il titolo di quest’opera è “Il Mondo Nuovo” (nella foto qui sotto/accanto potete vederlo riprodotto, l’originale è largo cinque metri e alto  due e si trova nel museo di Cà Rezzonico a Venezia).
E’ un quadro così moderno che già nel 1932 lo scrittore americano Aldous Huxley pubblica, con lo stesso titolo, “Il mondo nuovo”, uno dei più bei romanzi di fantascienza mai scritti, ambientato addirittura nel lontano 2500. Ma tornerò più avanti sulla sua trama, anch’essa, guarda caso, di straordinaria attualità.

Tiepolo rappresenta nel dipinto un’epoca, o meglio la fine di un’epoca. In primo piano è un gruppo di persone – popolani, borghesi, nobili, donne e uomini, uno di essi è in maschera di carnevale – tutti volti di spalle (tranne un ragazzino).  E tutti sono in attesa del proprio turno per guardare, oltre il muro delle persone, uno spettacolo che noi non vediamo e che possiamo soltanto intuire: lo indica con una lunga bacchetta un imbonitore che, in piedi sopra uno sgabello, sembra appunto mostrare qualcosa. Un critico d’arte ha così descritto questa scena: “Se ci fosse il sonoro, potremmo sentire, al di sopra del brusio, la voce squillante dell’imbonitore che ripete: venite signori, venite a vedere il mondo nuovo”. 
Perché è questo quello che la piccola folla aspetta di vedere: il “mondo nuovo”.

E’ il 1791, la rivoluzione francese ha appena spazzato via tutto, tra pochi anni Napoleone cederà la Serenissima di Venezia agli austriaci… e la gloriosa e meravigliosa città, lentamente lentamente, si avvia al  tramonto e al suo inevitabile declino.

A proposito: ciò per cui tutti, in quell’affresco, attendono il proprio turno, quello che tutti vogliono guardare, è probabilmente uno svago di grande successo in quel tempo a Venezia: una “lanterna magica” - il cinema di allora – che mostrava immagini di terre e di genti lontane, esotiche… in cui perdersi con la fantasia.
Lo stesso bisogno di evasione e di fuga nell’immaginazione che, nel 1929, spingerà gli americani -  impoveriti da una delle più terribili crisi economiche e finanziarie di tutti i tempi, nota come la “Grande depressione”, con il crollo di Wall Street e il dollaro che improvvisamente non vale più nulla - a spendere quei  pochi soldi rimastigli per andare, prima di tutto, … al cinema!
Perché la fantasia e l’immaginazione, quando la realtà è inaccettabile, l’incertezza e l’inquietudine ci attanagliano, sono l’unica molla che ci rimane per andare avanti, per superare le avversità. Con la speranza di un avvenire migliore, di un “mondo nuovo” che vinca la paura del presente e ci dia un’illusione.
Sentimenti di straordinaria attualità – dicevo – perché non possiamo non riconoscere in quelle paure, in quelle incertezza e inquietudine, anche le nostre, di oggi. Quel dipinto quindi non riguarda solo la  Venezia del ‘700, ma anche il nostro tempo. Parla di noi. Corsi e ricorsi storici…

E il romanzo di Huxley, anch’esso intitolato al mondo nuovo, di che cosa parla, perché sembra così  attuale?
Il libro – scritto negli anni ’30 - anticipa temi quali lo sviluppo delle tecnologie, dell’eugenetica, del controllo mentale, utilizzati per descrivere un nuovo modello di società il cui motto è “Comunità, Identità, Stabilità” (la prima e l’ultima vi ricordano forse qualcosa?). Il mondo che vi è narrato potrebbe apparire all’inizio una auspicabile utopia, ma è invece solo un drammatico mondo irreale, una sorta di limbo esistenziale.
La vicenda è ambientata nel futuro, in un mondo così tecnicizzato che gli anni si contano, invece che dalla nascita di Cristo, da quella di Ford, il gigante dell’industria dei motori: siamo quindi nel 632 dopo Ford.
Una dittatura ha riportato l’ordine nel mondo sconvolto dalle guerre e la stabilità del sistema è assicurata da un controllo rigoroso del numero e della tipologia dei cittadini (che nascono tutti in provetta); il potere è detenuto da dieci Controllori, mentre in una “riserva” sono confinati gli individui divergenti, le cui caratteristiche non corrispondono al modello voluto dai controllori.
Uno di questi “diversi”, John, che è nato invece da un grembo materno, ottiene un giorno di poter uscire dalla riserva e… rimane in un primo momento impressionato, affascinato dal mondo che si trova improvvisamente davanti; ma a poco a poco ne è disgustato e, per aver provocato una ribellione, deve presentarsi al Grande Controllore… etc etc (non voglio togliere il piacere a chi non lo avesse letto di scoprire il pur amaro finale).
La società utopica e ideale descritta da Huxley, e che si trova davanti il “selvaggio” John, è coercitivamente libera da preoccupazioni e incertezze, sana, tecnologicamente avanzata, anche promiscua, e priva di povertà, di guerre e di preoccupazioni per il futuro. Ma questa condizione è ottenuta con il sacrificio di cose molto umane quali l’amore, la famiglia, la diversità culturale, l’arte, la religione, la letteratura. Insomma, per poter garantire un’eterna e universale felicità all’umanità, questa società deve manipolare i suoi cittadini, limitandone la libertà di scelta, le ambizioni, i sentimenti, le espressioni. Devono solo essere “felici” secondo un modello unico prestabilito.

Tutti i riferimenti ai vissuti, ai sentimenti, alla figura dell’imbonitore, percepibili o visibili nel dipinto di Tiepolo; nonché tutti i riferimenti alle situazioni, ai Coordinatori mondiali, alle “riserve" per i divergenti dal potere, al Grande  Controllore, leggibili nel futuribile romanzo di Huxley, sono assolutamente voluti e non casuali.  Perché in quel passato dipinto, come in quel futuro narrato, ci siamo sempre noi.


 Alessandro Petti