Alberto
Pasolini Zanelli
Benjamin Netanyahu,
detto Bibi, rimarrà premier di Israele. Ha raggiunto il traguardo che aveva
perseguito con tutti i mezzi. Ma meriterebbe soprattutto un altro premio: il
Nobel della strategia elettorale. È difficile trovare, frugando nella storia
non soltanto di Israele ma di tutto il mondo dagli usi democratici, un
capolavoro all’altezza della sua campagna 2015. Un mese fa lo davano in
difficoltà, due settimane fa alle corde, una settimana fa per morto. Quando si
sono aperte le urne i più ottimisti fra i suoi simpatizzanti lo davano alla
pari del suo antagonista e i primi exit
polls parevano confermarlo. Invece al traguardo Netanyahu è arrivato solo e
con un margine più netto che in altri suoi successi elettorali.
Adesso si accorgono
tutti, alleati, nemici e i pochi “spassionati”, della perfezione di una tattica
a rischio totale che però non aveva alternative. Il massimo cui un altro
politico avrebbe potuto cercare di rassegnarsi era ridurre le dimensioni della
sconfitta. Bibi ha fatto il contrario: è partito all’attacco, osando missioni
che i più consideravano “suicide”. Ha sfidato l’America attraverso l’America.
Ha cancellato comizi nella sua piccola patria ed è volato a Washington per
partecipare alla campagna lanciata dai repubblicani contro la Casa Bianca. Si è
presentato in Congresso su invito dell’opposizione e, dal cuore della
Superpotenza, ne ha aggredito le scelte in politica estera, poi gli ha passato
la mano e loro hanno confezionato una “bomba” ancora più detonante: una lettera
al governo iraniano in cui lo si incita a rompere le trattative con Obama.
Netanyahu ha lasciato che la polemica rimbombasse per qualche giorno e poi ha
ripreso il microfono per un’altra dichiarazione “incendiaria”: no alle “due
Palestine”. Una promessa nel cui mantenimento da tempo nessuno crede, ma che
tutti o quasi fingono di considerare fattibile, compreso Bibi che anni fa aveva
solennemente promesso l’appoggio suo e del suo partito. Gli hanno rovesciato
addosso accuse di incoerenza, ma proprio da lì è cominciato il suo blitz
dell’ultima ora. Aveva capito gli umori dei suoi compatrioti, degli ebrei di
Israele per cui di Palestine ce n’è una sola, anche se il nemico principale
oggi non sono i palestinesi bensì l’Iran.
Coloro che seguono
tale inclinazione avevano votato in precedenza per partiti minori, di destra o
di estrema destra, dai religiosi ortodossi al blocco elettorale dei nuovi
immigrati, che contano su una prosecuzione degli insediamenti. Alleati di
Netanyahu ma scomodi e ad un tempo “concorrenti”. Quel jamais aveva loro per bersaglio: una volta che Bibi ha preso
quell’impegno, non è più necessario essergli soltanto alleati. Ci si può affidare
a lui. E infine l’ultimo tocco di genio, uno slogan vincente a campagna elettorale
conclusa, ad urne aperte: “State attenti, rischiamo di perdere, gli arabi si
affollano alle urne, ce li portano in autobus”. Conclusione, “non disperdere i
voti”, l’appello della paura. Il conto è tornato alla perfezione: il “testa a
testa” con il moderato Herzog è diventato una vittoria per Bibi con un chiaro
margine in seggi, che probabilmente toglierà al presidente della Repubblica il motivo
per portare avanti il proprio progetto di un governo di “unità nazionale” con
Netanyahu premier ma l’opposizione dentro.
Così, invece, i
giochi paiono fatti, molto probabilmente lo sono. Israele ha scelto. Adesso
devono scegliere gli altri: i palestinesi, gli iraniani, gli americani. Obama
aveva probabilmente sperato in una sconfitta di Netanyahu e in un interlocutore
più “ragionevole” al suo posto. Adesso invece la strada delle trattative è
ancora più ardua e sassosa. I rapporti fra la Casa Bianca e lo Stato ebraico,
interlocutore storicamente privilegiato ma a volte tanto scomodo, continueranno
a soffrire di una fondamentale differenza nella valutazione delle crisi
mondiali. Che riflette, per cominciare, le diverse “dimensioni” degli
interlocutori. L’America è grande e potente, ha il bisogno e il dovere di uno
sguardo globale. Israele è piccola anche se agguerrita e comincia a guardare il
mondo dalla porta di casa. Per Netanyahu e almeno metà dei suoi concittadini
l’Iran con le sue ambizioni nucleari e intrighi diplomatici è più pericoloso
perfino di Isis con le sue strategie del terrore, che minacciano tutti
(compresi i musulmani e soprattutto l’Occidente) e non soltanto qualche milione
di ebrei. Con dimensioni così diverse è davvero rimarchevole che due Paesi
siano rimasti così alleati attraverso le crisi planetarie. Alleati scomodi.
Ancora di più forse da oggi che Bibi è stato premiato proprio per quelli che il
resto del mondo considera i suoi pericolosi difetti.