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La prima sconfitta campale dei tagliagole



Alberto Pasolini Zanelli
È stata la prima sconfitta campale dei tagliagole del Califfo, in un luogo che storicamente rimanda alle origini stesse dell’istituzione e al suo obiettivo strategico di oggi. La riconquista di Tikrit (uno dei caposaldi del “triangolo sunnita” e luogo natale, fra l’altro, di Saddam Hussein) non solo allontana, almeno per il momento, le minacce a Bagdad e apre la strada al recupero di Mossul, ma potrebbe essere un evento sul terreno diplomatico oltre che su quello campale. Tikrit è stata infatti riconquistata da una forza “alleata” in gran parte messa in campo dall’Iran e condotta in cooperazione con forze irachene sostenute dagli Stati Uniti. Non è la prima volta, ma è la prima concretizzazione di una “alleanza segreta” fra due Paesi che in molti altri conflitti si trovano su posizioni opposte ma che si sentono costrette a collaborare quando di fronte hanno l’Isis e la sua selvaggia intransigenza criminale.
Ad un costo, però, e a diversi rischi. Quanto intensi, è facile da calcolare e ricordare se si tiene presente lo scontro politico in corso a Washington, il contrasto strategico frontale fra il progetto di Barack Obama e la controstrategia dell’opposizione repubblicana, di un vigore, quest’ultima, illuminato da due episodi: l’accoglienza al primo ministro israeliano Netanyahu a tenere una requisitoria contro la Casa Bianca nell’aula del Congresso e il messaggio dei repubblicani in Senato al governo di Teheran e l’invito all’Iran a rifiutare nelle imminenti trattative le proposte di Obama per una “sosta” decennale nei progetti di riarmo nucleare. Non era mai accaduto negli Stati Uniti che il presidente venisse scavalcato su un tema e in un momento cruciale, con il rischio immediato di far perdere alla diplomazia Usa il prestigio e la credibilità diplomatiche e anche in supporto militare. Nella battaglia di Tikrit non si sono scontrati soltanto l’esercito iracheno, ma anche milizie sciite di obbedienza iraniana. È stato il “battesimo” di una alleanza che si può definire “innaturale” ma che deriva dalla identificazione del “male minore”. Teheran e Washington rimangono opposte in tanti campi e su tanti problemi ma valutano che il pericolo più immediato e maggiore sia costituito dall’Isis, dalle sue atrocità e dai suoi fini destabilizzanti. Un punto di vista che nasce dalla convinzione che le tante crisi del Medio Oriente abbiano sì origini diverse, ma si sommino e debbano essere contrastate con progetti a lunga scadenza e corrispondenti a una visione globale. Che può contrastare interessi e passioni più localizzate. Nello spazio e nel tempo. La battaglia di Tikrit è avvenuta a meno di una settimana dalle elezioni in Israele, che decideranno la sorte di Netanyahu e della sua linea di totale intransigenza, imperniata sulla convinzione che i progetti nucleari di Teheran siano rivolti principalmente contro lo Stato ebraico e per esso costituiscano anzi la massima minaccia alla sua stessa sopravvivenza e che di conseguenza tutti le altre crisi siano secondarie, compresa l’“esplosione” dell’Isis e del Califfato. Una visione certamente parziale, ma comprensibile, che difficilmente può però essere condivisa del tutto dalla Superpotenza, che può e deve avere una visione planetaria. Non si può pretendere che da Washington si guardi al mondo con gli occhi di Gerusalemme, né che Gerusalemme si possa adattare in uno schema mondiale che molti suoi cittadini possono considerare astratto. Che poi nel conseguente confronto abbiano parte interessi strettamente politici in entrambe i Paesi è inevitabile. In una democrazia le elezioni contano. In Israele è in gioco la continuità della “linea Netanyahu” di “doverosa” intransigenza. Negli Stati Uniti non si è mai vista una contrapposizione così netta e “caricata” fra la visione “lunga” di Obama e la strategia immediata e spregiudicata della leadership attuale del Partito Repubblicano. Che ha adottato una linea totalmente alternativa in preparazione delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo e crede di avere individuato nella politica estera il punto debole dei democratici, rafforzati ultimamente dalla buona salute dell’economia, culminata nella valutazione record del dollaro e nella caduta della disoccupazione ai suoi minimi. La battaglia in Congresso – e a Wall Street – non è meno accanita di quella di Tikrit.