"È un raro onore, nella vita, poter seguire l’esempio
dei nostri eroi. E John Lewis è uno dei miei eroi. Tuttavia, immagino
che quando il giovane John Lewis si svegliò quella mattina di
cinquant’anni fa e si avviò verso la Brown Chapel, di certo non pensava
all’eroismo. C’erano ragazzi con zaini e sacchi a pelo accorsi da ogni
dove. Un dottore spiegava gli effetti dei gas lacrimogeni, mentre i
manifestanti scrivevano su un foglietto come contattare i parenti in
caso di necessità. L’aria era carica di tensioni, dubbi e timori. I
partecipanti cercavano conforto nell’ultimo verso dell’ultimo inno
intonato assieme: «Qualunque sarà la prova, Dio ti proteggerà;/ Poggia
il capo, se sei stanco, sul Suo petto, Dio ti proteggerà».
Ci sono luoghi in cui è stato sancito il destino della nostra nazione. Selma è uno di questi.
Un
pomeriggio di cinquant’anni fa, gran parte della storia travagliata di
questa nazione – la vergogna della schiavitù e lo strazio della guerra
civile; il giogo della segregazione e la tirannide delle leggi razziali;
la morte di quattro bambine a Birmingham e il sogno di un predicatore
battista – si è raccolta in questo luogo.
Gli
americani che hanno attraversato questo ponte non avevano un fisico
possente, eppure hanno saputo infondere coraggio a milioni di persone.
Non erano stati eletti a nessuna carica di governo, eppure hanno saputo
guidare una nazione. Si sono messi in marcia come cittadini americani
che avevano sopportato centinaia d’anni di brutali violenze e
innumerevoli umiliazioni quotidiane, ma non reclamavano privilegi, bensì
di essere trattati con giustizia ed uguaglianza, come era stato
promesso loro quasi un secolo prima (...).
Lo
spirito americano che ha spinto giovani, uomini e donne, ad afferrare
la fiaccola e attraversare questo ponte è lo stesso spirito che ha
spinto i patrioti a scegliere la rivoluzione per sottrarsi alla
tirannia. È lo stesso istinto che ha attirato gli immigrati, dall’altra
sponda degli oceani e del Rio Grande; lo stesso istinto che ha spinto le
donne a lottare per il voto e i lavoratori a organizzarsi per
combattere le ingiustizie; lo stesso istinto che ci ha portati a
piantare la bandiera a Iwo Jima e sulla Luna. È
l’idea condivisa da generazioni di cittadini che vedono l’America come
una realtà in continua evoluzione, per i quali amare il proprio Paese
significa non solo osannarlo o scansare verità scomode, ma saper trovare
addirittura il coraggio di causare disordini, la volontà di alzare la
voce per difendere ciò che è giusto, ribaltare lo status quo.
È
questo ciò che ci rende unici e cementa la nostra fama di Paese delle
opportunità. I ragazzi dietro la Cortina di Ferro hanno assistito agli
eventi di Selma e un giorno anche loro hanno rovesciato un muro. I
giovani di Soweto hanno sentito parlare Bob Kennedy di quel piccolo
raggio di speranza e alla fine sono riusciti a cancellare la vergogna
dell’apartheid. Dalle strade di Tunisi a piazza Maidan in Ucraina, la
nostra generazione di giovani potrà trarre ispirazione da questo luogo,
dove coloro che erano senza potere hanno saputo cambiare la più grande
potenza mondiale e costringere i suoi governanti ad allargare gli
orizzonti della libertà (...).
Una
conquista gloriosa, avrebbe detto Martin Luther King. Quale immenso
debito di riconoscenza ci lega a loro. Ma la domanda è d’obbligo: come
esprimere la nostra riconoscenza?
Rendiamo
un cattivo servizio alla causa della giustizia insinuando che
pregiudizio e discriminazione siano immutabili, o che le divisioni
razziali siano connaturate in America. Se pensate che nulla sia cambiato
nell’ultimo mezzo secolo, chiedete a chiunque sia vissuto a Selma, o a
Chicago o a Los Angeles negli anni Cinquanta. Chiedete alle donne
dirigenti d’impresa, che allora sarebbero state relegate a mansioni di
segretarie, se nulla è cambiato. Chiedete al vostro amico gay, se è più
facile vivere la propria sessualità oggi in America rispetto a
trent’anni fa. Negare questo progresso – che è il nostro progresso –
equivale a negare la nostra capacità d’azione, la nostra responsabilità
nel fare ciò che è in nostro potere di fare per migliorare l’America.
Certo,
un errore più comune è suggerire che il razzismo non esiste più(...).
Basta tenere aperti occhi, orecchie e cuori per capire che la storia
razziale di questo Paese getta ancora la sua lunga ombra su di noi.
Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la partita non è ancora
vinta (...). Con i nostri sforzi congiunti, possiamo tutelare le
fondamenta della nostra democrazia, in nome della quale tante persone
attraversarono questo ponte, e questo si chiama il diritto di voto.
Oggi, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, esistono leggi in questo paese
che ostacolano il diritto di voto dei cittadini, anzi, nuove leggi
vengono proposte in questo senso (...).
Siamo
nati dal cambiamento. Abbiamo infranto le antiche aristocrazie,
riconoscendo la nostra nobiltà non nel sangue, ma nei diritti
inalienabili concessi dal Creatore. Abbiamo stabilito quali sono i
nostri diritti e doveri tramite un sistema di governo autonomo, del
popolo, attraverso il popolo e per il popolo. Per questo siamo pronti a
misurarci e a discutere con passione e convinzione, perché sappiamo che i
nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è quella che noi
costruiamo giorno dopo giorno (...).
Siamo
noi gli immigrati che arrivarono da clandestini sulle navi, le folle
accalcate impazienti di respirare la libertà, i superstiti
dell’Olocausto, i dissidenti sovietici, gli orfani sudanesi. Siamo noi i
migranti pieni di speranza che attraversano il Rio Grande per dare ai
loro figli una vita migliore. Così è nato il nostro Paese. Siamo noi gli
schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e arricchito l’economia del
sud. Siamo i braccianti e i cowboy che hanno spalancato il West, e
un’infinità di operai che hanno costruito le ferrovie, innalzato i
grattacieli e combattuto per i diritti dei lavoratori.
Siamo
noi i soldati che hanno fatto la guerra per liberare un continente
(...). Siamo i vigili del fuoco accorsi alle Torri Gemelle l’11
settembre, siamo i volontari andati a combattere in Iraq e in
Afghanistan. Siamo noi gli omosessuali che hanno versato il loro sangue
nelle strade di San Francisco e di New York, proprio come il sangue
versato su questo ponte. Siamo noi gli inventori del gospel, del jazz e
del blues, del bluegrass e del country, dell’hip-hop e del rock’n’roll; è
questa la nostra musica, con tutta la malinconica tristezza e la gioia
scatenata della libertà (...).
È
questa l’America. Non foto di repertorio o storia edulcorata, né
tiepidi tentativi di definire alcuni di noi come più americani degli
altri. Rispettiamo il passato, ma non lo rimpiangiamo. Non abbiamo
timore del futuro, anzi, lo anticipiamo. L’America non è qualcosa di
fragile: siamo grandi e, nelle parole di Whitman, sappiamo accogliere le
moltitudini. Siamo chiassosi, variegati e pieni di energia, sempre
giovani. Ecco perché qualcuno come John Lewis, all’età di 25 anni, si
mise alla testa di una marcia storica.
Perché
Selma ci dimostra che l’America non è il progetto di questo o di
quello. Perché la parola più potente della nostra democrazia è «noi». We
The People . We Shall Overcome . Yes We Can . Questo spirito appartiene
a tutti.
Cinquant’anni
dopo quel Bloody Sunday, la nostra marcia non è ancora finita: ma il
traguardo è vicino. Duecentotrentanove anni dopo la nascita della nostra
nazione, la nostra unione non è ancora stata perfezionata. Ma il
traguardo è vicino. Il nostro compito è reso più facile, perché qualcuno
ci ha aiutato a superare il primo miglio. Quando pensiamo che la strada
sia troppo difficile, ricordiamo questi primi viaggiatori per trarre
forza dal loro esempio, ripetendo le parole del profeta Isaia: «Quelli
che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come
aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano».
Onoriamo
coloro che hanno camminato, e che ci hanno permesso di correre. Oggi
tocca a noi correre, affinchè i nostri figli possano spiccare il volo. E
non ci stancheremo, perché crediamo nella grandezza di Dio e crediamo
nella sacra promessa di questo Paese.
Che Dio benedica quei combattenti per la giustizia che ci hanno lasciato, che Dio benedica gli Stati Uniti d’America"Barack Obama
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Caro Oscar Bartoli,
il discorso a Selma del Presidente Obama mi ha colpito molto e profondamente; anche io ho radici americane; i miei nonni erano emigrati in Argentina dall'Italia nel 1880; mia madre era Americana, i miei zii e cugini erano e sono Americani; io sono 50% Americano.
Dal discorso di Obama trasudano parole cruciali; Libertà, Uguaglianza, Tolleranza, Unione, Fratellanza. Sono principi universali e sacri per il progresso dell'Umanità.
Io amo sempre ricordare che le Rivoluzioni che hanno sancito i Diritti degli Uomini sono sorte prima sulla riva Americana dell'Atlantico e successivamente in Europa.
Quindi non è un caso se ancora oggi, da quella sponda dell'Atlantico, si diffondono inni e azioni ispirate al vecchio -ma imperituro- Trinomio dell'Illuminismo, matrice del mondo contemporaneo.
Dario Seglie, Italy