Non è invocando solidarietà ma costruendo interessi comuni che possiamo salvare l’Europa e l’Italia (che o è dentro o muore)
Di Enrico Cisnetto (Pensa Libero)
Per favore, se vogliamo preservare l’Europa come
soggetto integrato, e soprattutto se vogliamo noi italiani restarne parte,
aboliamo dal vocabolario politico la parola solidarietà. Lo so, è brutto
esprimere un auspicio del genere a Pasqua – una festività che anche per i laici
è evocativa del sentimento della fratellanza – e tanto più in un momento
drammatico come questo, con così tanta gente che ha bisogno di sostegno e tanta
altra che generosamente lo offre. Ma, per il bene di tutti, è necessario
sgombrare il campo dall’equivoco che deriva dal pensare che l’Europa debba
essere il luogo della solidarietà tra i popoli continentali e quindi tra gli
Stati che li rappresentano. Non è così, ed è pericoloso pensare che debba
esserlo. Lo so, la maledetta emergenza che ci sta affliggendo spinge in quella
direzione, favorita dalla nobiltà che c’è nel prestare aiuto a chi ne ha
bisogno, ma è la strada sbagliata se davvero vogliamo arrivare a dare e a
ricevere solidarietà, intesa come la fratellanza che scaturisce dalla coscienza
di far parte di un unico corpo sociale e quindi di avere un interesse comune.
Ed Europa significa interesse comune, non una sommatoria di interessi
nazionali. L’Italia, purtroppo, in questa fase di negoziato europeo che si concluderà
il 23 aprile (speriamo), ha invece camminato lungo il sentiero accidentato del
pretendere aiuto. Oltretutto, aggiungendo lamentele per non vedersi concedere
quanto reclamato.
Io credo che ciò serva a tutti, e a noi italiani in
primis, sia uno stato federale sul modello degli Stati Uniti d’America. Fino a
qualche tempo fa – diciamo fino a prima che, nel corso degli anni Novanta, si
sviluppasse il grande fenomeno della globalizzazione – quella degli Stati Uniti
d’Europa poteva essere una nobile ambizione, un pensiero forte di élite
illuminate. Ma nel mondo integrato e nello stesso tempo sottratto ai patti
spartitori che per decenni hanno regolati gli equilibri planetari, e tanto più
nel mondo che verosimilmente si andrà a definire dopo che questo tsunami sarà
passato – in cui lo scenario più probabile sarà quello di Cina, Usa e Russia
che combattono sul terreno del Vecchio Continente la battaglia della supremazia
– l’integrazione europea non è più un anelito alla Altiero Spinelli, ma una
necessità imprescindibile. Senza la quale l’area del mondo di più antica
civiltà e di più consolidata democrazia liberale, e nello stesso con la
maggiore possibilità (teorica) di diventare un modello politico ed economico
per il futuro, rischia di entrare nel peggiore dei modi nel nuovo evo che ci
attende – ricco di cambiamenti epocali dall’alto tasso di imprevedibilità –
finendo per essere terra di conquista e di progressivo impoverimento, non solo
economico.
La pandemia non risparmia nessuno, ma solo
apparentemente somiglia a “’A livella” di Totò, che ci rende tutti uguali.
Perchè quei paesi che l’affrontano per conto proprio, continuando a pensare
solo agli interessi nazionali, finiranno per uscire da questo durissimo
passaggio della storia come soccombenti. Quello che occorre non è il pur nobile
mutuo soccorso tra diversi, ma la creazione di un nuovo interesse nazionale,
inteso come europeo. Invece, porre la questione in termini di solidarietà, come
ha fatto l’Italia in questa circostanza, è la scelta esattamente opposta:
umiliante per chi chiede aiuto, anche se in nome di un’emergenza sanitaria, e
ben poco convincente per chi dovrebbe prestarlo. Per esempio, per un tedesco è
legittimo domandarsi: perché gli italiani destinano alla sanità il 6,5% del pil
e noi il 9,5%? Come si spiega che la Germania ha il maggior numero di posti
letto in terapia intensiva in Europa in rapporto al numero di abitanti (34 ogni
100 mila, oltre 28 mila totali), mentre l’Italia ne conta solo 5100 (8,5
ogni 100 mila abitanti), collocandosi al 19° posto su 23 paesi europei? E un
olandese non ha forse il diritto di contestarci il fatto che abbiamo il debito
pubblico al 137% del pil pur avendo una crescita asfittica? E dunque dirci che
abbiamo sprecato quei circa mille miliardi (sì, la cifra è giusta) che la
politica monetaria di Draghi e la flessibilità di bilancio strappata a
Bruxelles in questi anni ci hanno messo a disposizione. Certo, all’amico
“crucco” potremmo ricordare che sta dimenticando che l’Europa generosamente gli
condonò i danni morali e materiali della guerra o rinfacciare che il suo paese
disattende gli impegni continuando a posticipare l’attivazione
dell’assicurazione europea sui conti correnti quale terza gamba necessaria per
completare l’Unione Bancaria. Così come all’amico dei Paesi Bassi potremmo a
buon diritto accusare di campare di concorrenza fiscale sleale, che certo gli
frutta più dei tulipani. Ma meglio evitare l’infantile gioco delle accuse
reciproche. Ai paesi del Nord che (giustamente) non vogliono pagare il conto
dei nostri errori, è inutile ricordare i loro. Nessuno è in condizione di
scagliare la prima pietra.
Viceversa, dovremmo essere persuasivi nello
spiegare a tutti, cominciando da noi stessi, che se nei governi europei dovesse
prevalere la rinuncia a creare un’Europa integrata per paura di essere
scavalcati (chi a destra chi a sinistra) da populisti e sovranisti interni e
avesse la meglio la “re-nationalisation of policy”, come l’ha definita Wolfgang
Münchau sul Financial Times, la frittata per l’Europa e l’euro sarebbe fatta, e
non risparmierebbe nessuno, compresi i paesi fin qui più ricchi. Impoverirci
significherebbe diventare satelliti, prima sul piano economico e poi anche
politico e militare, di altre potenze. E tutti, dominanti e subalterni, si
trasformerebbero in dominati. Credere di poter vincere questa battaglia in nome
del “distanziamento economico” tra i diversi stati europei preesistente al
Covid19, è una pura illusione. Non meno foriera di disastri di quella di chi
spera (noi) che la simmetria del virus cancelli le asimmetrie preesistenti.
Insomma, si sta insieme non per solidarietà, ma per interesse, e ciascuno lo
spieghi alle proprie opinioni pubbliche. Come ha fatto l’ottima leader dei
Verdi tedeschi, Annalena Barbock, ponendosi pubblicamente una semplice quanto
decisiva domanda: “vi immaginate cosa potrebbe succedere se domani la Cina e la
Russia offrissero un piano Marshall all’Italia o alla Spagna?”. E vi
immaginate, aggiungo io, se costoro domani comprassero i titoli del debito
pubblico italiano e di altri paesi della parte meridionale del continente? Nel
mondo post-atlantico sta emergendo un triumvirato Usa-Cina-Russia, al cui
cospetto siamo tutti nani, Germania compresa, come diplomazia e difesa. E anche
come economia, se è vero che l’attuale Unione era il 20% abbondante del pil
mondiale nel 1986, il 17% nel 2014 e sarà poco più del 14% nel 2024 (proiezioni
pre-virus).
Ma l’Italia, per bieche ragioni di politica interna
(più dentro al governo che fuori, nonostante le sguaiate lamentazioni di Conte
verso l’opposizione), ha scelto gli argomenti sbagliati nella lunga trattativa
europea: da un lato ha pietito solidarietà – un concetto che non ha nulla a che
vedere con l’idea che si debba creare debito federale – e dall’altra ha tentato
l’azzardo calando la carta del ricatto “o gli eurobond o facciamo da soli”. Un
gioco cui ora rischia di rimanere impiccata se Macron (non certo Conte) non
riuscirà, o non vorrà nemmeno provare, a convincere la Merkel ad aprire,
trascinando con sé Olanda, Austria e Finlandia, a qualcosa di più concreto del
Recovery Fund accennato nel compromesso con cui si è concluso il lungo e
travagliato vertice dell’Eurogruppo. Perchè è evidente che un simile strumento,
essendo finanziato dal budget Ue, comporterà negoziati dai tempi lunghi (un
semestre?) e una potenza di fuoco molto limitata, mentre c’è bisogno di tanto e
subito.
Detto questo, sarebbe autolesionista rinunciare –
per puntiglio o, peggio, per ragioni ideologico-elettorali – a quanto potrà
arrivare dal negoziato che ora passa nelle mani del Consiglio Europeo, compreso
quel 2% di pil (32 miliardi per noi) per utilizzi sanitari se davvero si
potesse ottenere da un MES senza condizionalità, tanto più che dentro quel
Fondo ci sono anche i nostri soldi. Sappiamo che il “Fondo salva-stati” è nato
per far fronte ad altri tipi di crisi (finanziarie asimmetriche), ma
sinceramente dire di no a priori quando i suoi meccanismi sono ancora tutti da
verificare, è a dir poco incomprensibile. Così come sarebbe miope se noi
perdessimo di vista il fatto che gli unici soldi veri che in questo momento
abbiamo a disposizione per fronteggiare l’emergenza e le sue conseguenze
arrivano tutti dall’Europa, tra la sospensione del patto di stabilità
(Commissione europea) che ci ha consentito il pur striminzito decreto “cura
Italia” (25 miliardi), l’acquisto del nostro debito pubblico pari a un terzo
del fabbisogno annuo (250 miliardi, Bce) e la possibilità di attingere al fondo
Sure per la disoccupazione (100 miliardi), ai 240 miliardi che la Bei fornirà
sotto forma di prestiti e garanzie alle imprese, ma soprattutto ai 900 miliardi
che la Bce mette a disposizione per acquisti di titoli sovrani e privati.
Certo, i circa 1500 miliardi messi in campo a vario
titolo dalle istituzioni dell’eurosistema non sono sufficienti, specie se li si
raffronta ai 3 mila miliardi messi in campo dagli Stati Uniti (al netto del
bazooka della Federal Reserve). Inoltre, sono in parte (500 miliardi) basati su
prestiti, che come tali gravano sui bilanci degli stati e devono essere
restituiti. Ma, mi domando, quale sarebbe lo scenario se non ci fosse neppure
questo?
Perchè deve essere chiaro che né la ripartenza né
tantomeno la ricostruzione del tessuto economico del Paese passano per il
“decreto liquidità” e i 450 miliardi sbandierati come “poderosi”. In realtà la
misura è a saldo zero, considerato che il Parlamento non ha ancora autorizzato
alcuno scostamento di bilancio, e ha nei tempi esecutivi il difetto esiziale,
visto che i 25 mila euro assegnati alle Pmi, pur essendo completamente
garantiti dallo Stato, non sono ancora stati erogati, e gli altri meccanismi di
finanziamento prevedono un’istruttoria che, se fatta con i tempi e le procedure
standard, li rende inutili. E questo mentre in altri paesi (Germania, Francia,
Svizzera) i soldi sono già sui conti correnti delle aziende.
Insomma, senza i soldi della Bce, quelli del
passato e quelli appena stanziati, l’Italia sarebbe già saltata per aria, e
senza le erogazioni delle istituzioni europee, pur onerose, certo non si
potrebbe rialzare. Altro che fare gli schizzinosi e i nazionalisti con il
“piano B” (che altro non sarebbe che il “lato B” degli italiani). L’Italia,
dunque, si presenti al Consiglio Europeo del 23 aprile senza preclusioni – che
sono in buona misura retaggi ideologici e che comunque non possiamo permetterci
– ma con la determinazione a trattare a 360 gradi, dalla regole del MES alle
modalità e consistenza del Recovery Fund. Sapendo che nell’Unione la
negoziazione è elemento fondante, il che richiede di avere in mano la sacra
trilogia “strategia, competenze e capacità negoziali e di coalizione”. In gioco
c’è il presente e il futuro nostro e dell’Europa. Se Conte e il suo governo, ma
anche le opposizioni, sono all’altezza della sfida, bene, altrimenti si lasci
fare al presidente Mattarella e si metta fine a questa esperienza politica,
prima che sia troppo tardi.
Enrico
Cisnetto