Alberto Pasolini Zanelli
Kim Jong-un è stato
di parola. Ha annunciato la “conquista” da parte del suo regime della superarma
nucleare. Lo aveva fatto annunciare due giorni prima, dato come un appuntamento
ad un nemico cui di solito le innovazioni militari vengono nascoste o
comunicate il più tardi possibile. Invece il dittatore di Pyongyang – l’ultimo
comunista del pianeta – ci teneva che tutti, proprio tutti, i destinatari della
sua minaccia lo ascoltassero, possibilmente non troppo rilassati. L’annuncio in
sé non era infatti da ascoltare distrattamente: dice che è riuscito a superare
tutti gli ostacoli politici, giuridici e militari e a cogliere il frutto
proibito, soprattutto per una nazione che vive da quasi settant’anni sotto
controllo e in una sorta di cella di rigore. La notizia è precisa,
indiscutibile anche nei tempi. Il “botto” è stato sentito e ascoltato in mezzo
mondo, registrato dalle agenzie che tengono d’occhio, in America, in Cina,
nella Corea del Sud e certamente anche in Russia, terremoti e affini. La scossa
si è verificata alle 10.30 del mattino dell’Epifania (ora coreana), ha avuto
una potenza di grado 5.1, è avvenuta a una trentina di chilometri dalla base
atomica di Punggye-ri, sede di tutti gli esperimenti precedenti del genere, nel
punto in cui erano state rilevate nelle ultime settimane le prove dell’attività
di scavo di un nuovissimo tunnel apposito. Anche l’“onda” è stata molto simile
a quella registrata nelle passate occasioni. Il “quando” e il “come” non sono
dunque in discussione. Non così il “cosa”. Kim dice che è una bomba “nucleare”
e segna dunque lo sfondamento da parte del suo Stato dell’ultima barriera che
separa l’arma atomica da quella nucleare, molto più potente e dunque
potenzialmente risolutiva.
Il problema è che i
destinatari di un così robusto messaggio non sono finora del tutto convinti
della sua natura. I governi sia dell’America, sia del Giappone e i loro addetti
militari, si mostrano anzi scettici, anzi convinti che quella detonata dell’altro
giorno sia una “mera” atomica, simile a quelle sperimentate dalla Corea del
Nord negli ultimi anni, la penultima volta nel 2013. Le super-risorse
specifiche sono considerate tuttora limitate, l’arsenale atomico sufficiente
per nutrire da otto a dodici bombe, anche se da tempo sono in corso almeno due
nuovi programmi, uno per arricchire l’uranio, l’altro in direzione di un’arma
davvero nucleare. Il mondo si troverebbe dunque davanti a una miscela tra
progressi reali ma limitati e una componente di bluff. Anche per questo ci sono
dei precedenti. La penultima volta Kim Jong-un si fece addirittura riprendere di
fronte a una carta geostrategica incollata sul muro del comando supremo
nordcoreano, corredata da una scritta: “Piani per attaccare la terraferma Usa”.
Egli era in uniforme militare e per l’occasione egli aveva ordinato ai suoi sudditi
in uniforme di far conoscere psicologicamente questa sua intenzione aggressiva,
che sarebbe condotta tramite un “missile alla coreana” munito di testata nucleare
e “legato” sul dorso di un missile intercontinentale. Le ultime informazioni
vanno nella stessa direzione, indicando che la testata è stata “ridotta” in
modo da contenere un livello di potenza normalmente associato a vettori molto
più grandi. L’atomica di Pyongyang, insomma, sarebbe micro nucleare.
Ai destinatari di
quest’annuncio e di questa minaccia tocca ora approfondire le immagini al fine
di separare il progresso militare e il suo scopo “diplomatico”. Secondo alcuni
la mossa non sarebbe che una ripetizione di quella inscenata da Pyongyang da
anni. Ci sono precedenti in altri Paesi, che però in genere manipolano la
realtà per definirsi forti ma ragionevoli e si presentano in genere più deboli
di quanto siano. Una strategia usata anche di recente dall’Iran e dall’Irak,
quest’ultimo effettivamente a mani vuote. Erano gli anni in cui il presidente
George W. Bush aveva creato la formula “Asse del Male”, includendovi Bagdad,
Teheran e Pyongyang, sottoposti a ultimatum molto simili, trasformati in realtà
dall’attacco all’Irak concluso con l’abbattimento del regime di Saddam Hussein
e dalla sua morte, contemporanea all’ammissione da parte Usa che le famose
“super armi” non esistevano. Deve essere stata quell’occasione a spingere i
nordcoreani a trarre una conclusione: che la “dichiarazione di guerra” americana
era stata seguita dai fatti contro un nemico “disarmato”, mentre era stato
risparmiato quello di cui si sospettava che quelle armi le avesse. Da questa
deduzione potrebbe essere nata la strategia nordcoreana: non dobbiamo temere
troppo l’America. Possiamo anzi costringerla “a trattare” e non fare la fine di
Saddam.