Alberto Pasolini Zanelli
Des Moines (Iowa)
Nove mesi in
trincea. È ciò che attende gli eserciti di entrambi i partiti americani: una
“guerra di posizione”. Faticacce e disagi e spese come quando la Prima guerra mondiale si
impantanò in Europa da Verdun alle Fiandre per quattro anni. Grondando sangue,
quella. Questa promette solo pazienza e nervi logori. Promettendo entrambe
pazienza, fango e pidocchi. Queste sono, almeno, le previsioni degli esperti.
Di coloro che stilano paragoni tra due generi di campagne elettorali: quelle
che assomigliano a guerre-lampo e sfociano in gioiose parate e quelle che
costano molto sudore e tanta pazienza. Le previsioni per questa maratona del
2016 sono soprattutto pazienza e frustrazione.
Nelle intenzioni
dei partiti non c’erano queste. Gli strateghi si erano preparati a una
guerra-lampo, secondo regole nuove elaborate nei quartieri generali, che sono
poi la sede dei Poteri Forti: una fase iniziale breve e secca, quattro
“primarie” in Stati poco popolati ed elettorati ben disegnati socio
politicamente: Iowa in rappresentanza dell’America rurale, del Midwest, il New
Hampshire come riassunto della Nuova Inghilterra, il South Carolina
“concentrato” del Sud e della “Fascia della Bibbia” e il Nevada dell’Ovest
d’azzardo. Poi, in marzo, il “Supermartedì” con quasi tutti gli Stati più
popolosi. Gli strateghi repubblicani e democratici premevano o almeno speravano
che tutto si decidesse presto e che già in aprile si conoscessero i nomi dei
“finalisti”, nei due partiti alla Casa Bianca.
I più hanno già
lasciato cadere queste illusioni alla vigilia dello sparo del via. Hanno già
capito che anche quella del 2016 sarà una “guerra di trincea”, lunga e
combattuta fino al fatidico primo martedì di novembre fra due belligeranti
entrambi ulteriormente trasformati in direzione dell’intransigenza e di
ripetuti assalti alle trincee “nemiche”. Ognuno forse, guidato da uno slogan
differente (dalle tasse alla politica del Medio Oriente) ma, caso per caso e
giorno per giorno condotta, con intransigenza ideologica, guardata con gli
occhiali “liberali” o “conservatori”, ispirate dalla convinzione che il
“fronte” opposto non si limita a sbagliare ma è guidato da strategie che
mettono in pericolo il benessere del Paese. Il tutto a una temperatura ancora
più rovente per quanto riguarda i repubblicani che, in sette anni di
opposizione a oltranza alla Casa Bianca di Barack Obama, sono o si sentono
obbligati a una battaglia campale dal momento che ogni moderazione di tono o di
sostanza verrebbe interpretata come una resa ideologica. Non c’è più, nel
partito che per l’ultima volta fu condotto al trionfo da Ronald Reagan negli
anni Ottanta, un rapporto dialettico fra “conservatori” e “moderati”. Questi
ultimi sono praticamente scomparsi. Non ce n’è uno nella dozzina abbondante
degli aspiranti alla Casa Bianca. Rimangono solo i “conservatori” e gli
“ultraconservatori”. Hanno obiettivi praticamente identici, la differenza è che
i primi sono consigliati e guidati da una specie di gerarchia dei Poteri Forti,
cui interessa soprattutto vincere senza bisogno di stravincere.
I secondi, invece,
sono più ideologici e soprattutto più appassionati. Conducono una “guerra
totale”. I motivi sono da tempo noti e si riassumono in due stati d’animo: la
paura e la rabbia. Tristi previsioni in economia, urgenti timori che “se ci
toccherà un altro presidente così” continui ad erodersi il primato americano
sul mondo. Abbiamo parlato di una dozzina di candidati, che si collocano però
in due campi più o meno trincerati. I “conservatori moderati” tengono a una
vittoria, non importa se di stretta misura. Credevano di avere i candidati
adatti, a cominciare dall’ultima “offerta” di una Dinastia: la famiglia Bush,
che ha già dato all’America due presidenti per un totale di sedici anni. Dovrebbe
toccare stavolta a Jeb, a lungo governatore della Florida, equilibrato e
rispettato un po’ da tutti senza entusiasmare nessuno. Invece i test
preelettorali lo hanno relegato tra il quarto e il sesto posto, rivelando che
la moderazione non basta se non ha un “verbo” di idee proprie, anche se
controverse.
In testa partono
invece due ultrà rivelatisi così popolari da potersi concedere il lusso non di
difendersi contro le accuse di estremismo, ma addirittura di un duello privato
sforzandosi ciascuno di essere o apparire più estremista dell’altro. Si tratta
di Ted Cruz, un senatore di origine cubana e fino a poco tempo fa di
cittadinanza canadese, oggi senatore del Texas. L’altra Donald Trump, un uomo
d’affari di grandi dimensioni, molto ricco ma novellino alla politica,
eloquente ma scarso in autocontrollo, autore di slogan e interventi di dubbia
efficacia ma di più che dubbio gusto. Egli promette, fra l’altro, una
conduzione senza remore delle operazioni militari nel Medio Oriente, intransigenza
nei confronti della Russia, espulsione dal suolo americano di milioni di
immigrati di dubbia legalità o addirittura il divieto di ingresso su suolo
americano di ogni musulmano. Gli strateghi dell’establishment repubblicano lo
vedono come un grave pericolo per la salute del partito, capace anche di
“regalare le elezioni” ai democratici. Lo Stato Maggiore repubblicano è
convinto che i due “estremisti” vadano fermati, ma allo stato attuale, al
momento del via alla maratona elettorale americana, l’unico modo di fermare
Trump è votare per Cruz e quello di fermare Cruz votare per Trump. Troppo
simili l’un l’altro da essere politicamente scambiabili, capaci entrambi di “regalare
la vittoria ai democratici”. E hanno i loro problemi anche se meno gravi. L’eredità
della presidenza Obama non è negativa ma neppure sufficiente a una trasmissione
dinastica e Hillary Clinton è rispettata ma non suscita entusiasmi. Al punto da
lasciare uno spazio di simpatie e di interesse a un uomo politico così insolito
negli Usa da apparire un estraneo. Non per come lo definiscono gli avversari,
ma per come si presenta: Bernie Sanders, un Socialista. Che propone, inoltre, una
“rivoluzione politica”.