Alberto Pasolini Zanelli
Elezioni USA senza precedenti o almeno diverse da tutte le altre negli ultimi decenni. Piene,
soprattutto, di contraddizioni e di novità non tutte frutto di buone notizie.
Il nuovo inquilino della Casa Bianca verrà eletto, come sempre, il primo
martedì di novembre in un anno bisestile come questo; ma si
comincerà a votare ufficialmente il primo febbraio per le primarie dei partiti
mentre in realtà il sipario si è aperto già da alcuni mesi con una serie di
dibattiti televisivi su scala nazionale, anche se formalmente riservati a
ciascuno delle due aree contrapposte, ideologicamente e di potere. La prossima
volta si cominciano a contare le schede nonché le opinioni dei sondaggi. Non
sono però le modifiche formali e di calendario a causare le innovazioni e le
differenze. Soprattutto per quanto riguarda il Partito repubblicano, cioè
l’opposizione in cerca di una rivincita dopo otto anni di Obama alla Casa
Bianca. La loro corsa ha visto in testa, dopo le prime curve da Grand Prix, nomi
non previsti e non attesi. Si aspettavano quelli portati avanti dalla logica
dei nomi, dalle costruzioni dell’establishment e dalla distribuzione dei
finanziamenti. Ci si aspettava, era anzi considerato inevitabile, l’ennesimo
Bush, il “moderato” Jeb, figlio e fratello di Presidenti o anche altri politici
esperti, soprattutto fra coloro che hanno condotto per sette anni l’opposizione
con più competenza che scrupoli, al fine di “impedire” a Obama di governare e
preparare così la successione.
Le previsioni sono
state però finora seccamente smentite. In testa alla gara non ci sono i nomi
attesi: c’è Donald Trump e Ted Cruz. Il primo è più che un outsider. È il megafono
della protesta non solo contro il democratico alla Casa Bianca, ma anche la
leadership repubblicana delle due ali del Congresso. Se l’imminente voto in
Iowa e quello successivo nel New Hampshire confermeranno questa tendenza,
finirà che l’establishment sarà composto e guidato dai contestatori
dell’establishment. Almeno in campo repubblicano: i democratici cominciano più
tardi e sono soprattutto in meno: due aspiranti alla presidenza contro tredici
concorrenti repubblicani.
Una conferma e una
sorpresa. La prima è che l’America è percorsa da un forte vento di malcontento,
la seconda è che gli elettori ce l’hanno con l’opposizione quasi quanto con il
governo se non addirittura di più. A quanto pare i repubblicani sono riusciti a
convincere che il governo merita molte critiche, ma non che la loro alternativa
sia valida. È come se gli elettori avessero finora deciso di credere alle
critiche che vengono da ambo le parti ma non alle loro proposte. Le parole
d’ordine sono due: malcontento e rabbia. Soprattutto rabbia, con almeno due
principali radici: una economica, l’altra “culturale”. La prima causa è il
forte rallentamento dell’economia nel ventunesimo secolo. La famiglia americana
media guadagna quasi esattamente quanto alla fine del ventesimo secolo, a causa
del quasi nullo incremento del salario medio, sintomo primo e più evidente
della stagnazione economica. Non è una sorpresa: una certa “disfunzione” è
apparente da decenni. Il declino dell’attività industriale che aveva offerto
posti di lavoro ben pagati a milioni di americani, non sostituito
dall’incremento dei compensi nel settore nel “servizio”, conseguenza anche ma
non solo della Grande Recessione, anche in presenza di un massiccio calo della
disoccupazione. Fra le conseguenze, un ulteriore incremento dell’astensionismo
elettorale, soprattutto negli Stati più industriali, che ospitano il ceto medio
e quei suoi settori tradizionalmente democratici.
Ciò dovrebbe
aiutare i repubblicani, se non fosse che anch’essi sono sfiduciati e
malcontenti, anche se per motivi differenti. Quelli, appunto, “culturali”. Le
riforme “progressiste”, per esempio nel campo sessuale, dalle nozze gay in giù
e la liberalizzazione delle droghe, hanno a quanto pare provocato una
diminuzione della frequenza religiosa, già maggiore nel ceto medio che vota
repubblicano, che in genere fruisce di un reddito mediamente superiore e che non
è consolata da maggiori “sussidi” dello Stato, inclusa la riforma sanitaria di
Obama combattuta dai repubblicani all’ultimo sangue, ora accettata ma senza
entusiasmo.
Molte sono dunque
le concause del malumore con cui si apre la campagna elettorale, singolarmente
coincidenti con gli umori contemporanei di molti Paesi europei, che hanno
prodotto già, dalla Francia, alla Grecia, alla Polonia, sia un aumento
dell’astensionismo, sia forti spostamenti a destra come a sinistra. Cominceremo
ora a prendere le misure di quelli americani. Per ora basta vedere che un
populista di estrema destra come Donald Trump è in testa in campo repubblicano,
tallonato da un “parente ideologico” come Cruz. Fra i democratici continua a
essere prevista la candidatura di Hillary Clinton, ora però insidiata da quella
che è forse la massima sorpresa dell’anno elettorale: Bernie Sanders, che si è
autodefinito con un termine quasi impensabile in America: “socialista”.