Alberto Pasolini Zanelli
Come “anno
politico”, il 2016 si è aperto, in America, con un certo numero di paradossi. Uno
è prodotto dall’abnorme calendario elettorale, che si mangia quasi la metà di
un mandato presidenziale. Davanti a una opposizione repubblicana impegnata a
lacerarsi nelle polemiche interne, l’inquilino quasi uscente della Casa Bianca ha
scelto, per farsi ascoltare, un discorso rivolto più al futuro che al passato. Barack
Obama ci ha aggiunto un paradosso di suo: ha esposto il messaggio pubblico con
discrezione e cautela e si è invece spiegato, esposto e sfogato in una
occasione dal “formato” di solito più “intimo”: una intervista chiara e
rivelatrice poche ore prima di salire sul podio. Doveva raccontare sette anni
di potere: li ha concentrati e si è dedicato all’avvenire. Statista eletto,
rieletto e non più rieleggibile, ha parlato quasi da candidato.
Ha cominciato con
una confessione: “Se potessi dare consigli a me stesso, mi raccomanderei di
rivolgersi con più fiducia al popolo americano. Da candidato, ho fatto il mio
mestiere meglio e più spesso che da presidente”. Voleva dire che quando si rivolge
agli elettori sa comunicare meglio la sua agenda che non quando ha a che fare
con il Congresso. Ha portato avanti una partnership transpacifica criticata da
molti suoi compagni di partito. Ha normalizzato dopo mezzo secolo le relazioni
con Cuba, rompendo un tabù da tempo anacronistico. E ha saputo difendere e
spiegare le necessarie iniziative per il clima. Non è poco per un presidente di
cui si diceva anche ieri che aveva “perduto la sua voce”. Nei suoi discorsi
recenti, che hanno aperto il suo ultimo anno alla Casa Bianca, ha saputo
esprimere sia la sua fiducia e perfino ottimismo, sia la sua sensibilità di
fronte a rapporti difficili e dolorosi. Ha deplorato e denunciato che la “diffidenza
e rancore” fra i partiti è “peggiorata invece di migliorare” durante il suo
mandato. Ha ripetuto che la colpa è principalmente di una leadership
repubblicana implacabile per la sua ostilità anche preconcetta e determinata nell’opporsi
a qualunque sua proposta fin dal primo in cui egli mise piede alla Casa Bianca:
non solo criticando la sua politica ma mettendo in dubbio la sua legittimità,
accusandolo perfino di non essere nato in America o di essere in segreto un
musulmano. Ma il maggiore pericolo del momento Obama lo riconosce nell’atmosfera
di ansia e di rabbia, quest’ultima ancora più deleteria e che, lo riconosce, lo
ha molte volte paralizzato.
Adesso Obama ha
fatto dell’autocritica, che aveva nascosto fino al momento, questo, in cui egli
ha imboccato il rettilineo d’arrivo. Prima ci sono state tante curve, che gli
osservatori, anche critici, hanno saputo mettere in fila come descrizione di un
percorso. Studiando le parole. Le parole chiave, che sono cambiate di anno in anno,
di messaggio in messaggio, lasciandosi dietro le tracce di una evoluzione,
dell’uomo e del mondo attorno a lui. Il principio c’è stato uno choc. Obama è
entrato alla Casa Bianca mentre il mondo, o almeno l’America, sembrava
crollargli addosso, sconvolta da quella che finì col chiamarsi Grande Recessione.
La crisi, la più grave da quella degli anni Trenta, lo aveva a corta scadenza
aiutato a vincere perché lo scontento si indirizza sempre contro chi è al
potere al momento. Il repubblicano uscì. Le conseguenze si sono sentite sempre
più forti, “sotto” Obama. La più angosciosa era la disoccupazione e quella
parola è stata la più frequente dei suoi primi discorsi sullo “Stato dell’Unione”.
La prima urgenza era la disoccupazione, salita al 10 per cento e rimasta per
anni a livelli del genere.
Il vento cominciò a
girare dopo due anni dall’inizio del mandato, ma con insufficiente vigore. Al
Congresso e al Paese Obama continuò a parlare dei senzalavoro, che erano ancora
il 9 per cento e gli americani cominciavano a perdere fiducia e pazienza. Nelle
elezioni del 2011 per il Congresso i repubblicani strapparono ai democratici la
maggioranza alla Camera. Indebolendo il presidente, che si vide spogliato da molti
dei suoi poteri, ridotto a reagire solo sventolando uno slogan di coraggio:
“Yes, we can”, “Sì, che possiamo”. Una formula desinata a girare il mondo. In
Paesi come la Spagna
la presero come nome di un nuovo partito: Podemos. Ma non bastava. Proprio
quell’anno il partito di Obama perdé la maggioranza anche in Senato e si trovò
di fronte un Congresso dalle porte murate. Il messaggio successivo sullo “Stato
dell’Unione” fu più ottimista e combattivo. Obama cominciò a parlare di
“voltare pagina dopo anni di incertezza”. Poté annunciare che la disoccupazione
si era finalmente dimezzata, scesa al 5 per cento, che l’America stava voltando
pagina, alzando lo sguardo, di nuovo più globale e accompagnato sempre più
spesso da “mondo”. Sul terreno internazionale non ci sono stati successi
analoghi. La crisi del Medio Oriente si è aggravata, approfondita, estesa,
aggravando responsabilità e problemi della Superpotenza. Restava e resta da
vincere la paura, un sentimento forte che indebolisce e che induce a reazioni
più pericolose per chi le formula perfino più di chi ne è il bersaglio. Obama
deve fare da freno e la cosa non giova alla sua popolarità. È quello che ha
fatto nel suo ultimo messaggio: esponendo una diagnosi e accompagnandola con un
appello, “a quello che c’è di meglio dell’America”. L’ultimo atto contiene promesse
e pericoli. Obama lo affronta come se fosse il suo terzo mandato presidenziale,
quello che non può esserci perché il traguardo adesso è la pensione.