Alberto Pasolini Zanelli
Più le urne si
avvicinano, più attraggono pretendenti, anche inediti. Fino a qualche giorno fa
c’erano in lizza per la Casa Bianca,
o per le “eliminatorie” del lungo torneo che vi conduce, una dozzina di
repubblicani e tre democratici, non tutti previsti dagli esperti nel momento in
cui si “lucidavano” le candidature, promosse in molti casi dalle “macchine” nei
due partiti, spesso sotto suggerimenti di quelli che noi chiamiamo Poteri Forti
e che in America si preferisce riconoscere sotto una definizione concreta e
antica: Wall Street. Le elezioni costano molto denaro, i contributori sono
generosi ma non amano disperdere i propri dollari. Fino a un paio di mesi fa
erano convinti: a) che i repubblicani partissero in forte vantaggio se i
democratici, privi ormai di Obama e dei suoi messaggi attraenti ma non del
deposito di risentimenti accumulati in sette anni abbondanti di sua residenza
alla Casa Bianca. Ambedue i “partitoni” avrebbero fatto bene, si pensava, a rinunciare
a brillanti “intuizioni” che a varare di nuovo i vecchi vascelli dinastici
identificabili con due famiglie: Bush per i repubblicani, Clinton per i
democratici. Non ci si mise molto a capire che non stava andando proprio così,
che gli umori degli elettori erano semmai orientati verso qualcosa di nuovo.
Soprattutto i
repubblicani: Jeb Bush, figlio del presidente George W. Bush e fratello del
presidente George Bush, era stato consigliato di tenersi sulle generali,
sorridere e presentarsi come un “pacificatore” prima delle file repubblicane e
poi di tutta l’America. Non tutti ne erano convinti, neppure nella sua
famiglia. Soprattutto il saggio papà, che già da mesi aveva espresso un pacato
monito: “Mi sa che l’America ne ha avuto abbastanza dei Bush”. Il presidente George
H. si astenne, cortesemente come suo costume, dal “lavoro elettorale” e
soprattutto dal citare l’altro figlio, George W. Bush, prevedendo che
menzionarlo avrebbe risvegliato le riprovazioni per la sua avventura in Irak.
Le polemiche si
riaccesero egualmente: troppo era per i concorrenti di Jeb la tentazione di caricarlo
della zavorra del fratello. Quanto a Papà (che definì “l’idea più giusta”
quella di mandare truppe di terra in Irak) si lasciò trascinare a parlarne con
l’autore di un libro-intervista che quando uscì si meritò un grande titolo
sulla recensione: “Papà Bush si è deciso a sculacciare l’erede”. L’altro
figlio, quello “innocente”, non si lasciò spostare dalla strategia subito
adottata, quella del “conciliatore”, anche quando presero ad accumularsi sondaggi
che lo collocavano nei ranghi bassi della graduatoria tra gli aspiranti
candidati, sia quelli raccomandati dall’establishment (come Marco Rubio), sia
gli “autonomi”, fra cui un medico di colore in pensione (Ben Carson), una
imprenditrice momentaneamente in disgrazia (Carly Fiorina) ma soprattutto il
più scomodo fra gli “ospiti”, Donald Trump, che ha sorpreso tutti presentandosi
e tutti ha meravigliato con la grande forza di attrazione rivelata dai sondaggi
e che adesso è in testa, mentre “Bush il dinasta” è in coda. In ritardo ma
egualmente a sorpresa, sotto pericolo si è trovata anche l’altra “erede”
designata, dal Partito democratico, Hillary Clinton, moglie di un presidente
molto popolare come Bill con quattro anni di esperienza alla Casa Bianca come
casa e per altrettanti come Segretario di Stato, cioè sulla poltrona con più
potere dopo quella del presidente. La “successione” era così scontata che
nessun altro democratico sentì la tentazione di sfidarla. Quasi nessuno, fino a
quando gettò il guanto della sfida il più improbabile, almeno sulla carta, dei
pretendenti. Bernie Sanders è partito carico di tanti handicap:
ultrasettantenne nell’America dei “Millennials” e dei tablet, nato a Brooklyn
non in qualche “terra” avvenirista, senatore di uno dei più piccoli degli Stati
Usa. E per di più socialista. Non sono gli avversari ad affibbiargli questo
titolo come fanno da anni addosso a Obama (che socialista non è mai stato): è lui
che lo proclama. Essendo stato iscritto per anni al partito di quel nome è lui
che incolla i due aggettivi, “socialista” e “democratico”. È lui, infine, che parla
di “rivoluzione politica” e che, invece che relegato nell’angolino che gli
spetterebbe secondo i politologi, corre per i primissimi posti. I sondaggi lo
danno secondo nell’Iowa, Stato inaugurale della maratona elettorale e
possibilmente anche primo nella seconda tappa in New Hampshire.
Proprio così: un “estremista”
di sinistra rischia di conquistare la leadership democratica, un estremista di
destra come Trump la leadership repubblica. Una situazione senza precedenti
negli Usa. Ed è per questo che l’establishment si allarma sul serio e denuncia entrambi
come pericolo e studia febbrilmente che cosa si può fare per fermarli. Qualcuno
si sta già dando da fare nella peggiore delle ipotesi: persi democratici e
repubblicani, presentare un candidato indipendente che riunisca gli elettori di
centro se quest’area politica si troverà davvero disertata. Si chiama Michael Bloomberg.
Ha militato per anni nelle file democratiche. È diventato repubblicano ed è
stato eletto e rieletto sindaco di New York. Ha raccolto consensi alla sua
opera subito dopo la strage terroristica del 2001. Ha già detto che se
scenderà in gara è disposto a firmare un assegno per un miliardo di dollari
come contributo personale alle spese. Deciderà fra un mese. Si sentirà
obbligato a farlo se entrambi i partiti cadranno nelle mani degli “estremisti”.
Per evitare che gli americani siano costretti a scegliere fra due mali.