Alberto Pasolini Zanelli
La presidenza Trump è stata finora
ricca soprattutto di battaglie e dunque, almeno per metà, di sconfitte e per
quell’altra metà di rinvii. L’opinione pubblica, anche quella americana e
figuriamoci dunque quella del resto del mondo, conosce soprattutto le vicende
degli scandali collegati con i rapporti con la Russia. Ogni giorno arrivano
notizie o voci. La differenza fra le definizioni deriva soprattutto
dall’identità di chi parla: i repubblicani minimizzano, i democratici esagerano.
Nomi di avvocati russi sconosciuti fino a ieri al di là delle frontiere
assumono un rilievo storico e in genere la loro fama non dura. Non si parla
d’altro, almeno sui giornali e non rimane spazio né tempo per esaminare come
l’uomo della Casa Bianca ha finora portato avanti i programmi e i doveri della
sua unica professione. Solo negli ultimi giorni il romanzo spionistico tessuto
in gran parte dall’opposizione ha perduto il primo posto nelle cronache, nei
commenti e nelle polemiche. L’America si è ricordata che i programmi su cui il
presidente repubblicano è stato eletto a sorpresa nel novembre scorso sono
soprattutto di politica interna, in particolare economica e finanziaria.
Ma intanto si preparavano i conti.
Ci si ricordava che il successo o meno dell’amministrazione sarebbe stato
deciso e contrassegnato dalla legislazione. Gli americani, forse ancor più che
in qualsiasi altro Paese, “votano con il portafoglio” e sono i cambiamenti
genericamente fiscali che determinano l’umore della gente e, in definitiva, la
rielezione o la bocciatura dei presidenti e degli altri uomini politici. Trump
ha condotto la sua campagna per la nomination repubblicana soprattutto su due
temi: la lotta contro l’immigrazione, simboleggiata dal progetto in un maximuro
alle frontiere con il Messico e una decisiva riforma del sistema della salute
pubblica. Del muro si parla sempre meno, il tema medico è stato dominante. Lo
sarà ancora in qualche misura, ma la “grande battaglia” è per il momento finita
con la sconfitta non solo di Trump ma per il momento con la rivincita, almeno
corale, di Barack Obama. Era stato lui a volere una riforma radicale, partendo
dalla constatazione fra i Paesi grandi, civili e moderni, Stati Uniti erano
l’unico a non avere un sistema di medicina “sociale” all’altezza di quasi tutti
gli altri. Obama ha cercato di darglielo, ma non ha potuto e dunque non ha
osato proporre la soluzione più semplice, almeno da spiegare: quella europea,
cioè diretta e controllata dallo Stato. Tutto quello che ha ottenuto a conclusione
delle domeniche sul tema centrale del suo programma, è stato un sistema
complicato basato su dei compromessi che non hanno soddisfatto né gli avversari
né i fautori del programma. I repubblicani, che nella loro opposizione avevano
fatto il tema centrale della loro campagna dell’anno scorso, avevano promesso
di preparare anche presto una soluzione alternativa.
Soltanto adesso hanno dovuto
ammettere di non avercela fatta. La strategia era di trasformazione pezzo per
pezzo del sistema costruito da Obama in modo da riportare gli equilibri in una
direzione meno costosa e più gradita alla burocrazia medica e soprattutto all’industria
farmaceutica. Trump ha ribadito con insistenza i traguardi della controriforma.
Ad attuarla era naturalmente compito del Congresso. In teoria i repubblicani
avevano e hanno la maggioranza assoluta sia alla Camera, sia al Senato e
parevano più compatti che sui temi di politica estera, contrassegnati fino dal
primo giorno da un contrasto tra il “repubblicanesimo tradizionale” (per intenderci,
quello di Reagan) e il “trumpismo”, fortemente polemico nei confronti
dell’Europa, più strettamente “nazionalista” nell’impostazione degli scambi
commerciali.
I risultati ottenuti, vittorie o sconfitte,
vanno messi all’attivo o al passivo del presidente, anche quando siano in
contrasto con le tradizioni del suo partito e i suoi principii. Il caso della
controriforma sanitaria è però diverso: con la sua retorica l’uomo della Casa
Bianca non ha fatto che proseguire sulla strada disegnata dal suo partito negli
otto anni della presidenza Obama. Il no è venuto dal Congresso, anzi in
particolare dal Senato e non dai democratici, bensì all’interno del Partito
repubblicano, dove si è delineata una opposizione che ha messo in minoranza la
Casa Bianca e ha indotto Trump, per ora, ad arrendersi. Al Senato i
repubblicani dispongono di 102 membri contro 96 democratici e due indipendenti.
Per passare una legge ne occorrono 101, ma almeno quattro della maggioranza si
sono schierati con l’opposizione e quindi il governo ha dovuto rinunciare a
mettere ai voti il proprio programma. Trump non ha potuto farci molto: si è
limitato a incitare i suoi. Il suo slogan è stato: “Io sono qui con la penna in
mano pronto a firmare la legge. Non appena me la manderanno”. Non gliel’hanno
mandata e adesso lui ha lanciato una strategia alternativa: non più cercare di
cambiare la legislazione obamiana ma semplicemente abolirla. Poi, ripartendo da
zero, costruire una riforma sanitaria repubblicana. Ci vorrà del tempo e ci
vorranno altre battaglie. Che potranno sovrastare le polemiche quotidiane sul
fantasma russo.