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Industria 4.0, svolta nel welfare






Guido Colomba
 
Dal "Gruppo dei Venti" è emersa una previsione su Industria 4.0. "Non più il manifatturiero - ha detto l'economista Bianchi - ma sarà il settore dei servizi a subire il colpo più negativo in termini di occupazione". Posto così il problema della disoccupazione giovanile (supera in media il 52% nel Mezzogiorno d'Italia) è evidente che la politica industriale del Paese va rivista drasticamente. A cominciare dall'esenzione permanente (strutturale) del cuneo fiscale per i più giovani. Certo, la classe dirigente rappresenta il primo ostacolo. Per decenni ha continuato a perseguire il concetto che solo con la grande industria si può crescere (eppure le attuali "big industry" degli Usa sono nate in un garage). Il mondo è cambiato. Il dettaglio è il contenitore del brevetto che produce il maggior valore aggiunto. Oramai, si parla di "agricoltura di precisione" con l'uso dei droni. Una visione che rende il ddl sulla concorrenza fuori tiro ancor prima di nascere. Il "Gruppo dei Venti", guidato da Luigi Paganetto, ne ha stilato il certificato di morte. Il secondo ostacolo riguarda la visione del welfare. Del tutto privo di un traguardo credibile. Il declino del Sud e la bassa crescita hanno una data di nascita con la fine della Cassa del Mezzogiorno. Da allora, la produttività del lavoro continua a scendere per una diffusa carenza di innovazione (re: S.Zecchini). Inoltre, il costo di fare impresa, secondo la Banca mondiale, è uno dei più alti nel mondo occidentale. Per questi motivi, il governo è chiamato a una vigilanza massima. Infatti, nei prossimi dodici mesi, l'Europa fisserà i paletti validi (politiche di coesione) per i prossimi venti anni. Purtroppo alimentati da diseguaglianze consolidate: i tassi bassi hanno fatto risparmiare alla Germania ben 240 miliardi in aggiunta ad un euro sottovalutato che ha favorito il boom dell'export teutonico. In Italia, i servizi sono soffocati e la spesa per controlli (compliance) è la più bassa con i pessimi risultati sotto gli occhi di tutti. Le novemila società partecipate dagli enti locali sguazzano in questo colabrodo (la riforma Madia doveva ridurle a mille). Non a caso la spesa pubblica assorbe quasi metà del Pil (49,6% nel 2016), cinque punti in più della Germania, sette punti in più della Spagna, due punti in più della media dell'eurozona. Al netto dei reimpieghi, la "spending review" (pari a 29,9 miliardi secondo i dati di Yoram Gutgeld) equivale allo 0,36% del Pil. Dunque, il continuo aumento del debito pubblico (2270 miliardi) in questi anni di austerità dimostra che la "formula Renzi" (flat tax e aumento del deficit al 2,9% per cinque anni) non può funzionare. Emergono quattro priorità: (a) detassazione totale sul lavoro dei giovani; (b) investimenti pubblici in infrastrutture con tempi certi; (c) riduzione della spesa pubblica cominciando dalle novecento detrazioni fiscali per un valore di 313 miliardi in forte aumento (59 miliardi) rispetto ai 254 miliardi del 2011; (d) blocco di qualsiasi aumento fiscale e tariffario (comprese le autostrade).