Guido Colomba
Se il petrolio Wti dovesse cedere quota 40 dollari al barile, i
mercati potrebbero registrare un sell off. L'altalena valutaria dell'euro
(intorno a quota 1,15) nei confronti del dollaro conferma una situazione di
grande nervosismo tra gli operatori. La pressione della Casa Bianca sui
mercati (iniziative dedicate al "Made in America") comincia a farsi
sentire, determinando due correnti opposte. Da un lato, la frattura tra i
paesi petroliferi dopo l'ultimatum che Arabia Saudita ed Egitto hanno
lanciato contro Qatar. Una frattura che rende gli Usa il big player assoluto.
Dall'altro, la ripresa dei Paesi emergenti, in primis la
Cina (+6,9% del Pil nel secondo trimestre), che si sono
trasformati da rischio a opportunità di nuovi investimenti. Per il 2017 si
stimano 970 miliardi di dollari di capitali esteri. Sta di fatto che
dall'inizio del 2017, bond e azioni hanno registrato forti rialzi. C'è il
rovescio della medaglia. Si teme, ancor di più che nel recente passato, la
crescita di una "bolla" sostenuta da indebitamento e
sovrapproduzione. La volatilità media della Cina è pari a 31,6 (contro 36,2
della Grecia). E' evidente che la spada di Damocle, ventilata da Trump, di
dazi commerciali per difendere la produzione statunitense può alterare questo
quadro. Su questo scenario si innesta la politica monetaria delle banche
centrali. Con il "tapering" (rialzo dei tassi) avviato dalla Fed ed
annunciato dalla Bce, le commodity vanno controcorrente rispetto a Wall
Street con livelli differenziali mai così bassi nell'arco di quarant'anni. Il
petrolio guida questo ribasso delle commodity. Il fatto nuovo è costituito
dalla inversione delle valutazioni: nel passato la debolezza strutturale del
petrolio era interpretata negativamente per l'azionario. Ora, invece,
l'innovazione tecnologica ha sostenuto il rally del primo semestre. Per la
Yellen si pone un problema di equilibrio molto delicato. Se
il petrolio Wti riesce a mantenere quota quaranta, la
Fed potrà continuare il programma di aumento dei tassi.
Altrimenti, la Fed
sarà costretta a frenare ma, in tal caso, farà un bel regalo a Wall Street.
Tuttavia il "sentiment" del mercato sembra non credere a questa
ipotesi. Il Bund, per ben otto mesi, ha oscillato fra lo 0,15% e 0,50% ma il
28 giugno ha rotto al rialzo questo “trading range”. Inoltre, si fa già
sentire l'effetto del rialzo dei rendimenti. Sta di fatto che, rispetto al primo
luglio 2016, il Btp decennale 1/6/2026 registra un bilancio negativo (-5,9%)
rispetto al +5,1% registrato per i Btp acquistati il primo luglio 2014.
Nell'arco di due anni, la differenza è pari all'undici per cento. Se il
rendimento dovesse continuare a salire oltre il 2,5%, ogni 150 punti base di
rialzo dei rendimenti la perdita in conto capitale si raddoppia. Un esempio
dei rischi impliciti per uscire dal mercato. Nello stesso periodo, si
registra una correlazione sempre più evidente tra l'indice azionario italiano
(Ftse Mib) e l'indice S&P 500 che sembra confermare la stretta dipendenza
dei due indici dalla politica delle rispettive banche centrali. Con il
"diversivo" dell'indice Ftse Mib che, durante la fase conclusiva
della crisi delle due banche venete, due settimane fa, ha beneficiato di
massicci acquisti molto tempestivi nel tonificare l'andamento dei prezzi ed
allontanare l'area di pericolo. Si apre una fase difficile per i gestori
dell'asset management (oltre duemila miliardi di patrimonio gestito) che, per
di più, debbono raccogliere la sfida della "compliance" con la
Mifid-2 in vigore dal primo gennaio prossimo.
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