Alberto Pasolini Zanelli
Da una manciata di giorni il polo
delle tensioni internazionali si è radicalmente spostato. Non è stavolta la
Siria né lo Yemen né la vecchia frontiera tra la Russia e l’Europa, né gli
arcipelaghi del Pacifico meridionale. Adesso si sollevano questioni, si
avvertono minacce, ci si scambiano messaggi dal sapore di ultimatum. L’epicentro
del mondo è per il momento la Corea. È una crisi vecchia di sessant’anni, la coda
di una guerra che in più di mezzo secolo non è riuscita a diventare una pace e
continua a coincidere con una linea di armistizio di poco successiva al secondo
conflitto mondiale. Allora ci fu una guerra in Corea fra due Coree, una delle
quali, quella comunista, tentò di assorbire l’altra. Adesso questa stessa
piccola Corea del Nord, quella da cui un Kim Jong Un impera da Pyongyang e
parla e si comporta da Superpotenza, ha riaperto una questione che in quei
termini sembrava defunta: l’arma nucleare, quella di cui i primi proprietari,
l’America e la Russia, hanno da tempo praticamente rinunciato a servirsi e che
ora si trovano a tentare di ricoprire nello stesso momento due ruoli
contrapposti: rispondere alla minaccia con una molto più pesante e credibile e
fare da mediatore. A ciascuna vengono rinfacciate debolezze o contraddizioni.
Mosca e Washington dovrebbero
lavorare assieme, alle spalle del Grande numero uno in questa parte del mondo
che è la Cina. I Grandi sono tre e l’inizio di una “mediazione” d’emergenza non
è incoraggiante. Il capo della diplomazia americana all’Onu, la signora Nikki
Haley, ha dato un primo giudizio sul ruolo russo e cinese, accusando Mosca e
Pechino di andare a braccetto di Kim, che sembra soprattutto interessato a
impedire una soluzione diplomatica a questa crisi, obbligando in tal modo gli
Stati Uniti a continuare a considerare necessaria un’azione militare: “Le
nostre capacità sono forti. Le useremo se dovremo, ma preferiamo non dovere
muoverci in quella direzione”. Una dichiarazione che da un lato sottolinea
l’impegno dell’amministrazione Trump nel rimettere assieme alleati e rivali in
un’agenda comune necessaria per fermare i progressi della Corea del Nord, con
un’urgenza determinata dal lancio di un missile balistico intercontinentale in un’area
allargata rispetto al penultimo esperimento e che ora può raggiungere l’Alaska,
che è parte integrale degli Stati Uniti. Un successo importante per Kim,
soprattutto rispetto ai molti tentativi precedenti, tutti più o meno falliti
negli ultimi anni. Questo allarme è condiviso, oltre che dalla Corea del Sud,
che sta per dichiarare l’emergenza, anche dal Giappone, che è potenza nucleare
solo nel ricordo di Hiroshima e di Nagasaki, una delle pagine più tristi e
orribili della storia.
Ma l’interlocutore che conta di più
nei rapporti fra Pyongyang e Washington è Pechino, divisa (o, per gli
ottimisti, equilibrata) fra l’ultimo Paese veramente comunista sulla Terra e impegnata
in una concorrenza di stampo “capitalista” con gli Stati Uniti. La Russia è
meno direttamente coinvolta ma è necessaria se si vuole sperare di evitare una
crisi. Trump lo ripeterà a Putin nell’imminente incontro ad Amburgo in
occasione del vertice annuale del gruppo dei venti, formalmente dedicato alle
questioni economiche. Dell’incontro in Germania fa parte anche il leader cinese
Xi, criticato in questi giorni e nelle ultime settimane dagli americani per
aver apparentemente rallentato i suoi sforzi, dando così l’impressione di non avere
ancora stabilito una linea, lasciando così spazio a due opposte tentazioni
negative: quella nordcoreana di lanciare un attacco nucleare preventivo contro la
parte occidentale degli Stati Uniti ora vulnerabile. L’America dal canto suo dovrà
decidere se è ancora sufficiente la sua tradizionale linea sulla questione
nucleare, quella portata avanti con successo con un rivale infinitamente più
potente e cioè l’Unione Sovietica. La Casa Bianca potrebbe ordinare sanzioni,
rafforzare la presenza navale al largo della penisola coreana: una politica che
qualche mese fa Trump, nel suo stile ormai tradizionale, ha riassunto:
“Possiamo spedire una squadra navale”. Un programma radicalmente opposto ai
fini non solo della Corea del Nord ma anche della Cina di limitare la libertà
d’azione americana nel Pacifico. Meglio dunque negoziare. Non è proprio un’idea
nuova: la lanciò un presidente Usa nel 1994. Nel frattempo il mondo è cambiato.
In peggio in quell’angolo d’Asia minacciato dalle ambizioni di Kim Jong Un.