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Lula al gabbio



Alberto Pasolini Zanelli
Il Paese delle Olimpiadi ha stabilito un nuovo record: quello della velocità di un processo. Una condanna a dieci anni di carcere che è praticamente arrivata assieme all’apertura stessa del procedimento, coadiuvata da una serie di misure che hanno inserito solo per sconsigliare all’imputato di affrontare un appello. Un procedimento di eccezione contro un imputato di eccezione: Luiz Inacio Lula da Silva, tre volte eletto presidente della Repubblica ed eroe nazionale. È stato trovato colpevole di corruzione: lui e sua moglie avrebbero ricevuto illegalmente l’equivalente di un milione di euro come contributo alle spese per la ristrutturazione di un appartamento al mare. Una misura modesta, soprattutto in paragone con la diffusa cultura della corruzione in Brasile che ne ha fatto da diversi decenni una sorta di simbolo del Brasile. Un’altra particolarità del verdetto si ritrova nelle sue code giuridiche e con le sue connessioni politiche. Lula si sta infatti preparando a ripresentarsi candidato alla presidenza della Repubblica l’anno prossimo e i sondaggi lo danno nettamente in testa. La sentenza stabilisce però che un imputato che abbia presentato ricorso non può candidarsi alle elezioni. Se lo facesse e non venisse eletto, la condanna verrebbe automaticamente raddoppiata. In questo caso salirebbe a diciannove anni, sempre per un milioncino di euro.
Ci sono tutte le apparenze di un verdetto dai connotati politici: l’autore della sentenza è il giudice Sergio Moro, a sua volta interessato a candidarsi alla presidenza della Repubblica. Dove potrebbe trovarsi senza concorrenti, almeno nell’ambito del partito di Lula (il Partito del Lavoro) dal momento che il successore indicato da Lula, Dilma Rousseff e due volte eletta alla presidenza, è stata defenestrata circa un anno fa da un altro verdetto sotto l’accusa di corruzione e quindi, in attesa del risultato del ricorso, non potrebbe neanche lei scendere in gara. La campagna per metterla fuori causa è stata condotta da un altro uomo politico, Temer, di cui sono già state chieste le dimissioni sotto la solita accusa di corruzione. È dunque un’ondata rivolta sì a limitare i danni di pratiche molto diffuse in Brasile da almeno mezzo secolo, inclusi gli anni della dittatura militare, appoggiata anche dagli interessi dei partiti che sono stati praticamente messi fuori causa da quando Lula conquistò il potere. Egli era e tuttora è un personaggio straordinario o almeno molto peculiare, per due motivi: il suo passato e il successo della sua presidenza, che difficilmente si concilia con il senso e la direzione dei suoi programmi e delle sue campagne. Egli fu eletto la prima volta il 6 ottobre 2002, dopo avere condotto una campagna molto densa di promesse contro i danni della dittatura, militare e civile, che aveva trovato complicità nei partiti tradizionali. Già le sue origini erano singolari. Per la prima volta nella storia convulsa del “progressismo” latinoamericano fu un operaio autentico a creare un’entità politica non guidata da un “intellettuale di sinistra” o da “progressisti” tradizionali ma dalla base. Lui stesso era un operaio autentico, veniva dalla miseria, settimo di otto figli di uno scaricatore di porto, poveri nella regione più povera dell’immenso Paese, quel Noroeste che alcuni decenni fa era l’epitome della miseria, a 10 anni cominciò a battere le strade da venditore ambulante e toccò il culmine della sua carriera “professionale” quando riuscì a diventare tornitore a 18 anni. A 25 era già in carcere come fondatore di un sindacato illegale contro la dittatura militare. Una storia rigorosamente parallela a quella di Lech Walesa, il ribelle al regime comunista polacco. Ambedue furono perseguitati, ambedue debuttarono in politica in libere elezioni nel fatidico 1989. Una differenza è che Walesa diede il meglio di sé come oppositore, mentre da Lula come governante ci si aspettava poco o dei disastri, mentre invece legato al suo nome è un’epoca d’oro del Brasile che, all’insegna del libero mercato, visse un boom rigorosamente spartito fra i ricchi molto ricchi e i poveri molto poveri, ma durante il suo governo quaranta milioni di cittadini si liberarono dalla miseria e salirono alla classe media. Non aveva alle spalle né la cultura, né il vocabolario, né gli inganni intellettuali della Sinistra e nemmeno due illusioni, ma soltanto impulsi elementari, di quelli che vengono addirittura prima della storia. Di certo, nonostante che il colore prediletto delle sue bandiere sia stato e sia il rosso, “Lula il Metallurgico” assomiglia di più a Juan Domingo Peron che non a Salvador Allende o a Fidel Castro. Di marxista egli ha qualche intelaiatura, di populista l’anima.
Pasolini.zanelli@gmail.com