Guido Colomba
Non c’è solo il problema dei migranti. Per
il governo Gentiloni, l’altra priorità è costituita dal dramma dei giovani,
non solo in termini di disoccupazione, tornata a quota 38%, ma nei confronti
della quarta rivoluzione industriale (la famosa 4.0). E’ in gioco il futuro del Paese in un
contesto internazionale fortemente competitivo e problematico. Ecco perché è
urgente il rilancio di programmi di scambi culturali, come le borse di studio
Fulbright, che nell’immediato dopoguerra hanno accompagnato il boom economico
e sociale dell’Italia plasmando un’intera classe dirigente. Non a caso il recente
“G7- Università”, svoltosi a Udine,
ha redatto un manifesto per
spiegare come “l’educazione per tutti” rappresenti lo strumento più potente per affrontare le
grandi sfide della globalizzazione. Gli studi empirici dimostrano che gli
investimenti in istruzione fanno aumentare il Pil:”Un alto numero di laureati
– afferma il manifesto- è la
condizione necessaria per mantenere la competitività”. La
Conferenza dei rettori italiani (Crui, presieduta da Gaetano
Manfredi) ha approfondito l’argomento anche con il confronto di Washington
con le università Usa. “Il messaggio è
quello di una mobilitazione per fare dell’educazione un volano di sviluppo “
(re: Alfredo De Felice. Rettore
Università di Udine). Non a caso il programma Erasmus è divenuto il
riferimento di politica culturale globale. E’ in questo contesto che si
colloca l’esigenza di borse di studio di alto livello per preparare i quadri
necessari allo sviluppo del Paese. L’Associazione “Alumni Fulbrigt” può dare
un contributo significativo per attrarre talenti e valorizzare le Pmi.
Secondo la ricerca Deloitte (re: Il Sole 21 giugno 2017) tre aziende su
quattro sentono il bisogno di un ripensamento culturale e manageriale dove la
sfida più importante è l’attrazione dei talenti e la riqualificazione dei
dipendenti. L’86% si dice pronto ad affrontare il cambiamento. Di certo, i dati attuali non sono
incoraggianti. C’è un sistema di orientamento che tutti gli atenei dicono di
aver attivato senza che le imprese se ne siano accorte. Ancor peggio il
“placement”. Secondo il rapporto Isfol (ora Inapp) solo il 3,7% ha trovato uno
sbocco. Al lato opposto, c’è il 35% di
laureati che discutono la tesi senza aver mai avuto a che fare neanche per un giorno con il mondo del
lavoro. I nodi da sciogliere sono
anche all’entrata. Nel 2015-16 il
52,8% degli immatricolati “si concentrava in due macroaree disciplinari
(ambito sociale e umanistico) che da anni faticano a offrire chance
lavorative adeguate” (re: E. Bruno IlSole24Ore, 11-05-2017). Il Paese vanta
altri primati negativi come
l’abbandono pari nel 2016 al
38,7% e un livello di laureati nella fascia 30 -34 anni che si colloca
al 25,6% (dati Eurostat). Un dato che colloca l’Italia al penultimo posto in
Europa.
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