Alberto Pasolini Zanelli
C’è ancora spazio per le sorprese
in un momento tra i più confusi della politica internazionale. Dice la
penultima notizia (di questi tempi non si può realisticamente parlare mai di
“ultima”) è la presenza di navi da guerra cinesi nel Mar Baltico. Non è il loro
posto, sia pure nel “mondo più piccolo” prodotto dalle innovazioni
tecnologiche, tanto meno in questo momento in cui i cinesi e i loro avversari
sono seriamente impegnati in azioni dimostrative nei mari del Sud in cui la
zona nel Baltico le tensioni politiche si aggravano e lasciano il posto a
discorsi militari. Tranquillizza un poco, non abbastanza, l’informazione che
queste navi da guerra di Pechino sono lì perché invitate da Mosca a una specie
di esercitazione combinata russo-cinese. Nel Baltico, una zona politica che,
dopo un paio di decenni di tranquillità, sta ridiventando un punto di frizione
fra Est e Ovest. Gli americani insistono nel temere che Putin ripeta in Estonia
o in Lettonia il “colpetto” del tipo prodotto in Crimea. Ne parlano soprattutto
in Congresso a Washington, dove si è alla ricerca di un motivo per rilanciare
le sanzioni contro la Russia, proprio nel momento in cui l’Europa si dichiara
contraria. Ambedue le Camere, divise su altri temi fra cui quello sensibilissimo
della controriforma della Sanità, hanno approvato un nuovo documento in
proposito con maggioranze di sogno: solo due senatori su cento e tre deputati
su quattrocento e passa hanno votato contro. Tutti gli altri, democratici e
repubblicani, hanno voluto esprimere così un voto di sfiducia nella Casa
Bianca, parlando di Putin ma intendendo Trump. Ma riuscendo soprattutto a
spingere Mosca a una ritorsione che dovrebbe venire molto presto. Si sta
ricreando un’atmosfera da Guerra Fredda, di cui obiettivamente non ci sono i
motivi. Tanto è vero che America e Russia si stanno accordando sullo scacchiere
veramente rovente del mondo in questo momento, cioè nel Medio Oriente. Si
delinea un accordo sulla Siria nel senso di una spartizione di zone di
influenza: le regioni del Nord e del Centro rimarrebbero ad Assad, amico dei
russi mentre quelle dell’Est sarebbero aperte ai progetti americani che
includono qualcosa di simile all’indipendenza per i curdi, soprattutto alle
frontiere con l’Irak e la Turchia. Ma è un progetto della Casa Bianca e dunque
non c’è alcuna garanzia che venga ratificato. Questo perché una vera Guerra
Fredda è in corso, ma nell’arena politica degli Stati Uniti, non solo fra
democratici e repubblicani, ma fra il Parlamento e la Casa Bianca. E anche
nell’opinione pubblica. Si sta diffondendo l’impressione che gli avversari
della Casa Bianca dicano, o gridino, Putin ma intendano Trump. Quel voto del
Congresso è in realtà un veto al miglioramento dei rapporti con la Russia che è
da tempo nei programmi del presidente ma che è ostacolato e intorbidito dalle
polemiche e dalle “rivelazioni” (almeno una al giorno) sulle infiltrazioni che
Mosca avrebbe condotto durante la campagna elettorale Usa e di cui non ci sono
prove sicuramente convincenti. Gli avversari non smettono di accumulare nuovi
“indizi” e sospetti, Trump si difende in maniera insolita, dedicandosi a
continue “epurazioni” di ministri e altri dirigenti dello Stato da lui stesso
nominati poco tempo prima. L’ultimo della lista Sessions, che Trump ha definito
“debole e deludente”, ma non ha ancora licenziato, contando sulle dimissioni.
Intanto la “guerra” continua sul
fronte della riforma medica, che in questo caso è invece partitica: dove un
repubblicano dice sì, un democratico risponde no. Almeno in Senato, dove il
partito di Trump dispone in teorica di cinquantadue seggi su cento, ma gliene
mancano sempre un paio e quindi le maggioranze sono sempre più rare. Il
presidente è evidentemente sotto assedio e si ribella ma in maniera indiretta.
L’ultimo esempio è sul suo massiccio intervento per espellere dalle forze
armate i transessuali, motivandolo con le spese che graverebbero sul Pentagono
per pagare le loro operazioni di trasformazione. Polemica contro polemica, i
fautori del pluralismo sessuale accusano Trump di avere “insultato gli eroi e i
patrioti”. Riassume la situazione il titolo di un quotidiano: “Tutti sono
arrabbiati con qualcuno”, che riassume i dati del malumore pubblico. Solo il 20
per cento degli americani approva il governo. Nel 2000 erano il 40 per cento e
negli anni Sessanta l’80 per cento. Le distanze fra repubblicani e democratici
sono addirittura maggiori che negli anni di Nixon e del Vietnam. C’è però
un’eccezione che dovrebbe consolare un po’ tutti: l’economia americana non ha
finora sofferto affatto di tutto questo tumulto. Continua a crescere.