Alberto Pasolini Zanelli
Forse è prematuro parlare di un
capovolgimento di fronte nel Medio Oriente, ma la tentazione di definirlo così
è forte. In poco più di una settimana molte posizioni, strategie, alleanze hanno
mostrato chiari segni che qualcosa sta cambiando, complicità si incrinano,
altre sorgono in combinazioni senza precedenti. Due settimane fa Trump ha
mostrato di voler abbracciare il mondo islamico o almeno quel suo settore che è
di obbedienza saudita senza cambiare la linea americana nei confronti del
terrorismo islamico. Una settimana fa gli Stati e staterelli oggetto di questo
abbraccio sono passati a un’offensiva diplomatica in cui la marca saudita è più
evidente che mai in una offensiva diplomatica ed economica contro il Qatar, che
ha provocato un apparente mutamento di rotta a Washington da cui è arrivata
subito la raccomandazione di non esagerare nell’attacco al Qatar e in generale
con le tentazioni di un nuovo fronte contro il terrorismo con la partecipazioni
di organizzazioni terroristiche attive da decenni e con un nuovo orientamento
offensivo che ha per obiettivo storico l’Iran.
Mentre la diplomazia si muoveva
apparentemente alla ricerca di un “calmante” in tutta l’area mediorientale, una
minaccia si è concretizzata con un gesto significativo non solo ma anche per la
sua locazione geografica: gli attentatori hanno per la prima volta colpito l’Iran,
nel modo e sugli obiettivi classici delle formazioni di Jihad islamica: una
moschea e il Parlamento di Teheran. Un no assoluto al regime in tutte le sue
forme, forse anche una reazione al risultato delle elezioni iraniane che hanno
visto il relativo successo delle forze moderate, sia pure all’interno del fronte
fedele all’eredità della rivoluzione islamica forgiata e all’eredità di
Khomeini. L’America e l’Occidente hanno reagito subito, sia pure in termini un
po’ più vaghi di quando gli attentatori e gli assassini agiscono contro i loro
obiettivi tradizionali, con qualche apparente cautela rispetto alle occasioni
simili altrove, ma anche con i segnali di una ennesima svolta nel gioco delle
alleanze nelle terre classiche dell’Isis e in particolare in Siria contro la
capitale del Califfato, ormai soprattutto cartacea dal momento che da tempo è
cominciato lo sgombero delle fragili strutture di Raqqa, la cui conquista fu un
paio d’anni fa il più clamoroso successo dell’Isis, diffondendo all’interno del
mondo islamico ma non solo, la sensazione di una concepibile vittoria degli
estremisti in almeno due Stati importanti come l’Irak e la Siria. Successi simbolici,
ma anche rilevanti sul terreno. Da allora le operazioni militari si
concentrarono su un paio di centri dalle due parti della frontiera fra Bagdad e
Damasco. Poi la spinta si attenuò e cominciò la fase difensiva dell’Isis e di
Al Qaida e una concentrazione del fronte opposto, sia pure diviso e
contraddittorio negli obiettivi.
Si delinearono schieramenti prima
soltanto intuibili: da una parte le formazioni politico-militari figlie di una
degenerazione dell’ideale proclamato di Primavera Araba. Una riacutizzata
guerra fra sciiti e sunniti per lungo tempo a vantaggio dei primi, che godevano
dell’appoggio militare russo. La concorrenza si profilò sempre più come
rivalità e il mondo finì con il doversi abituare a una situazione paradossale
in cui i nemici dell’Isis si combattono sempre di più l’uno contro l’altro,
forse non più soltanto sperando ma anche temendo le conseguenze di un collasso
del fronte terroristico, per esempio nei numerosi casi in cui le armate
considerate dall’America il male minore e sempre più finanziate e dirette da un
blocco sunnita con forte influsso dell’Arabia Saudita. Solennizzato anche dal
caloroso abbraccio fra Trump e il monarca di Riad e dalla sua corte di emirati e
altre forme statali più lontane dalla democrazia. I regimi arabi conservatori
sono stati, perlomeno negli ultimi giorni, elogiati e incoraggiati dal
presidente americano ancor più dei vecchi alleati europei. Non senza
conseguenze come la recentissima scomunica del Qatar, lo Stato forse più simile
alla monarchia saudita, sia nelle forme ideologiche, sia nella ricchezza
petrolifera con i suoi frutti politici. Perfino Trump pare temere adesso che si
esageri. Ma intanto il fronte antiterroristico continua a disgregarsi. Anche
nelle forme più facili, cioè di rivalità religiosa. Le bombe di Teheran colpiscono
infatti uno dei Paesi che, naturalmente nel proprio interesse, è più presente
nella lotta contro l’Isis su diversi piani: teologico, politico e finanziario.