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Caos Europa



Alberto Pasolini Zanelli
A poche ore di distanza, i governi di due fra i principali Paesi d’Europa si sono presentati ai loro elettori nella sede dei rispettivi Parlamenti, la Camera dei Comuni a Londra, l’Assemblea Nazionale a Parigi. Era previsto uno scambio di congratulazioni, promesse e cerimonie. Invece Gran Bretagna e Francia hanno gareggiato in sorprese tutto fuori che allegre e gradevoli. Nella capitale britannica era attesa la regina, in carrozza e con la corona in testa protagonista annuale di un Discorso della Corona. E invece è arrivata senza corona ma con un cappellino sia pure di eleganza regale e in macchina. E ha lasciato parlare il primo ministro Theresa May, che ha risparmiato le attese buone notizie. A Parigi il presidente della Repubblica Macron si è presentato in compagnia delle dimissioni di ben tre dei ministri che aveva scelto poche ore prima e non esattamente per intervenuti contrasti sul programma, ma perché erano sotto inchiesta e sotto accusa di reati finanziari: Sylvie Goulard, ministro della Difesa; Francois Bayrou, titolare della Giustizia e Marielle de Sarnez che doveva dirigere gli Affari europei. I reati contestati a tutti consistono nell’uso privato di fondi pubblici. Naturalmente sono stati sostituiti subito, ma non sono stati certo latori dei regali promessi alla nuova legislatura dal presidente Macron, leader fino a ieri miracolato di un partito che non esisteva ancora pochi mesi fa, che lui ha inventato e che ha trionfato in quattro elezioni consecutive in pochi mesi. Una l’hanno mantenuta, quella dell’unità nazionale. Provengono tutti da partiti diversi, esponenti della destra o del Partito socialista. Come del resto il presidente Macron in pochi anni ha cambiato un paio di volte appartenenza partitica, riuscendo per ora a far piacere agli elettori questi giri di volta. Non erano le novità che egli aveva promesso con eleganza preelettorale. E la sorpresa del debutto non gli ha naturalmente giovato e così le sostituzioni, dal momento che uno dei suoi slogan più vigorosi durante le campagne elettorali è stata la promessa di “liquidare i rottami e gli scandali etici del passato”.
Perlomeno lui si è presentato ai parlamentari fresco di sorprendenti vittorie, anche perché ha comunque dalla sua il tempo: sette anni di qui ai prossimi appuntamenti elettorali, presidenziali e parlamentari, a differenza della sua collega britannica che invece ha dovuto rinviare i suoi programmi e slogan più ambiziosi e che di tempo ne ha proprio poco. Aveva promesso di “cambiare la politica del Paese e rompere con il passato”. Uno dei suoi problemi è che lei rappresenta il passato e una continuità che non porta fortuna al Partito conservatore, che ha buttato via due vittorie. La maggioranza l’aveva conquistata Cameron, ma aveva indetto un referendum sul divorzio dall’Europa contando che i britannici rispondessero no. Invece hanno detto sì e ha dovuto dimettersi. Lo ha sostituito la May, che immediatamente è diventata sostenitrice di questo divorzio e con questa promessa ha convocato anche lei nuove elezioni contando di allargare ulteriormente la maggioranza assoluta dei seggi che il predecessore le aveva lasciato in eredità. Invece ha vinto, ma ha perduto la maggioranza assoluta e adesso è nei guai perché fatica a trovare un partner e lotta per la sopravvivenza politica e probabilmente dovrà cambiare accento e anche progetti a proposito dell’Europa. Aveva promesso una uscita dura per liberare la Gran Bretagna dai legami del mercato unico europeo e dell’unione doganale. Si aspettava di controllare l’immigrazione, uno dei tanti che vogliono liberarsi dalle formule imposte dalla cancelliera tedesca e lanciarsi, leader del Partito conservatore, in una serie di leggi e iniziative per riparare i danni causati alla classe operaia dalle conseguenze della globalizzazione. Sarà molto più difficile, adesso, mantenere queste promesse senza una maggioranza assoluta e con l’incubo di un voto di sfiducia che imporrebbe ennesime elezioni. Fatica infatti a trovare partiti disposti a formare una maggioranza. L’unico ad avere accettato di trattare con lei è una formazione politica locale dell’Irlanda del Nord e anche laggiù di minoranza, perché raccoglie i voti degli unionisti protestanti, mentre a Belfast vince da sempre un partito indipendentista e cattolico. Se non ce la farà può essere imminente invece un voto di sfiducia, che condurrebbe automaticamente, secondo il sistema e gli usi britannici, a ennesime nuove elezioni, dove il favorito sarebbe il Partito laburista e il suo nuovo leader, che invece di novità propone il ritorno alle idee e ai programmi del socialismo. Ma anche se riuscissero alleanze con quei dieci deputati irlandesi, non mancherebbero i rischi, a cominciare da grosse crepe nell’“armistizio” faticosamente raggiunto nell’Irlanda del Nord dopo una lotta secolare condotta spesso anche con le armi. Uno dei precedenti premier conservatori, John Major, successore della Thatcher in tempi più tranquilli, oggi è fra coloro che raccomandano “soprattutto un periodo di calma”. Un augurio saggio ma non entusiasmante. Il terzo che gode, intanto, è la signora Merkel, l’unica a credere che l’Europa vada bene così come è.