Alberto
Pasolini Zanelli
Qualcuno se
l’aspettava, ma non in questa forma e con questo bersaglio. La presidenza Trump
era cominciata, prevedibilmente, con una ridda di colpi bassi, una escalation
di violenza verbale. Che però contiene sempre il pericolo di far esplodere
altre forme di violenza. Questa volta il passo è stato drammatico e
inequivocabilmente intimo. La parola è passata anche a un’arma e a una forma di
violenza che fino a poco tempo fa si credeva riservata alle organizzazioni
terroristiche che l’America combatte da anni, in questo ancora unanime. Una illusione
in più, ferita di colpo con la medesima gravità delle sue vittime. In una forma
e in una occasione peculiari: l’attentato ad avversari politici su un campo di
baseball, sede di un torneo fra parlamentari e quel giorno di un allenamento
della squadra repubblicana. Uno venuto apposta ad Alexandria, alle porte di
Washington, con gli strumenti e la volontà di uccidere. E che ha voluto
assicurarsi di non sbagliare: a un altro spettatore ha chiesto la conferma se
quegli atleti fossero proprio repubblicani e non democratici. Avutala, ha
cominciato a sparare in campo e ha ferito, mettendolo in pericolo di vita, il
numero tre del gruppo parlamentare repubblicano alla Camera. Il perché lo aveva
spiegato diversi giorni prima ad altri interlocutori: non ne poteva più di
Trump e della sua amministrazione. Finché erano a parole, le sue critiche
riassumevano quelle ripetute e martellate dai mass media di opposizione,
completando così il quadro politico del momento, allarmante anche perché
l’America è e continua ad essere il centro del mondo.
La campagna non
era normale già nei limiti di tempo assegnatole. Questa volta la polemica si è
addirittura scatenata nel momento in cui doveva calmarsi. Il nuovo inquilino
della Casa Bianca ha passato tutti i suoi giorni da quello dell’insediamento
conducendo, in gran parte perché costretto, una seconda campagna elettorale
ancora più avvelenata della prima. Le polemiche non hanno dato segno di placarsi
e neanche di smettere la loro tumultuosa crescita. Colpa di entrambe le parti. Trump
ha commesso tanti errori e gaffe da giustificare le più pessimistiche
previsioni. E i suoi avversari hanno stabilito e continuano giorno per giorno,
in forma sempre più veemente, ogni storico primato di comportamenti degli
sconfitti in una grande democrazia come l’America. La tensione cresce, il
dialogo si allontana, la violenza verbale si trasforma sempre più in azione
concreta, in una tumultuosa caccia al record. Non è una opposizione, sia pure
particolarmente dura ed estrema: è ormai, forse da sempre, una manovra con un
obiettivo: non criticare l’uomo della Casa Bianca bensì buttarlo fuori dalla
Casa Bianca. Di giorno in giorno l’obiettivo sembra meno lontano di quanto le
regole e i precedenti potevano far prevedere.
Quella in corso è
soprattutto una rissa giuridica, in cui una mezza dozzina di uomini di legge e
costituzionalisti e alcune dozzine ormai di commissioni di inchiesta si
combattono con un obiettivo: arrivare primi a far cadere Trump. Che
involontariamente sembra far di tutto per aiutarli, con una serie di gaffe,
annunci roboanti e contraddittori, affermazioni smentite l’indomani da altre
parole o da demoralizzanti silenzi, particolarmente nel campo della politica
estera, dove i voli di un falco si intrecciano in azioni da colomba. Soltanto
nelle ultime ventiquattro ore sono spuntate altre tre giurie con il compito
formale di conoscere la verità, ma con il traguardo di distruggere un
presidente che si merita molte delle accuse, soprattutto quelle meno fondate e,
nell’urgenza di difendersi da un assalto senza confini, gareggia con i suoi
nemici nello spostare all’indietro i tempi e i temi, collaborando involontariamente
dell’assurdo processo di mettere una potenza rivale come la Russia al centro
della politica americana. L’ultimo esempio è un rilancio dell’annuncio non
nuovo dell’incontro tra Trump e il ministro degli Esteri del Cremlino, evento
in sé normale ma che viene collegato con accuse di interessi privati. Tutto
quello che Trump sa fare è licenziare l’uno dopo l’altro coloro che si
presentano con l’ambizione di essere suoi giudici.
L’opposizione
democratica a questo presidente repubblicano sta superando in faziosità la pur
rilevante opposizione repubblicana alla presidenza del democratico Barack
Obama, accusato per otto anni addirittura di non essere nato in America e
quindi di non essere eleggibile. Fra i propalatori di questa bugia c’era anche
Donald Trump. Che però a quei tempi era un semplice uomo d’affari, non un uomo
politico, né un candidato, né tanto meno un presidente eletto dal popolo. Ma
questa volta è accusato di reati anche peggiori e contagiosi.