Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 17 giugno 2017
Si è spento ieri un gigante della politica. Un gigante della politica tedesca ma, nello stesso tempo, un gigante della politica europea. Era infatti pensiero dominante di Helmut Kohl che la Germania potesse avere un grande e pacifico futuro solo attraverso un legame stretto ed amichevole con gli altri paesi europei.
Per questo motivo, pur essendo sotto molti aspetti uomo tradizionale e conservatore, fu in prima linea nella battaglia per l’introduzione dell’Euro, pur nella consapevolezza di trovarsi di fronte all’opposizione della maggioranza dei suoi concittadini. Di questo ne era perfettamente cosciente, ma era ancora più convinto che un forte legame fra i paesi europei fosse la migliore garanzia per il futuro della Germania.
Quando mi parlava di questo pensava certo al futuro ma partiva sempre dal ricordo del passato, dal fratello morto in guerra e dalle tragedie delle città distrutte. Il passato lo turbava profondamente ma costituiva soprattutto un ammonimento per costruire il nuovo, indissolubilmente legato alla solidarietà europea.
L’apice della sua carriera politica è stato certo nel momento in cui ha portato avanti il progetto dell’unificazione tedesca. Ne abbiamo parlato molte volte insieme e, in queste occasioni, non mancava mai di dirmi che la storica operazione era stata pazientemente costruita non tanto con un rapporto con le cancellerie dei diversi paesi ma seguendo passo passo e con grande attenzione le evoluzioni profonde dei cittadini della Germania dell’Est. Mi parlava di un lungo periodo di osservazione e preparazione, seguito da una rapidissima decisione nella quale era stato in grado di mettere i suoi colleghi europei e americani di fronte a una strategia così preparata nel tempo da non lasciare sostanzialmente alcuna alternativa.
Questo era il metodo abituale con cui Kohl prendeva le sue decisioni: approfondiva progressivamente i problemi, eliminando gli aspetti marginali fino ad arrivare alla semplice alternativa fra il si e il no.
All’inizio dei nostri rapporti questo suo processo di semplificazione mi sembrava quasi superficiale ma mi sono poi accorto che arrivare al si o al no dopo un lungo processo di consultazione e di approfondimento è la massima qualità di un uomo politico perché unisce, come raramente avviene, la ponderazione alla decisione.
I nostri rapporti si sono snodati in un’atmosfera di stima ed amicizia, anche se, in parecchie occasioni, siamo stati portatori di diversi interessi e di punti di vista divergenti. Come quando decise di appoggiare l’ingresso di Forza Italia nel Partito Popolare Europeo e, un po’ giustificandosi e un po’ forse sfottendo, mi diceva sorridendo che “avendo per tutta la sua vita combattuto i socialisti” non aveva alternative.
E non posso nemmeno dimenticare quando, dopo il nostro primo incontro quando la Cancelleria tedesca era ancora a Bonn, mi salutò dicendo “È stato proprio bello ma chi verrà a rappresentare l’Italia la prossima volta?”
Eppure amava l’Italia con un affetto vero: a parte la nostra convergenza di interessi politici ed economici, mi ha più volte ricordato come suo figlio, gravemente ferito in un incidente stradale, fosse stato lungamente curato ed assistito all’ospedale di Monza con una “competenza e un calore” che non aveva mai sperimentato altrove.
I nostri buoni rapporti personali erano certamente favoriti dal fatto che, pur avendo vissuto in ambienti così diversi, avevamo avuto una formazione molto simile, attraverso letture comuni al mondo cattolico europeo di allora, letture che andavano dai documenti del Concilio Vaticano II alle meditazioni del teologo italo-tedesco Romano Guardini.
E quando si sfogava, lamentandosi dell’incomprensione che la gerarchia cattolica tedesca spesso manifestava nei suoi confronti, non mi era difficile consolarlo ricordando come non erano certo più semplici i miei rapporti con la Conferenza Episcopale Italiana.
Questi colloqui, che andavano al di là dell’interesse politico di corto periodo perché si nutrivano di radici comuni, hanno reso possibile la continuazione dei rapporti anche dopo la fine della nostra attività politica. Non posso dimenticare come, nel primo di questi incontri, mi porto’ a colazione in un ristorante tra i vigneti attorno al Reno ed improvvisamente mi resi conto che molti anni prima (nel 1974) mi ero trovato in questo stesso piccolo albergo di campagna in un incontro con i miei colleghi di economia industriale dell’Univesita’ di Bonn e gli raccontai come dovetti partire improvvisamente per Bologna perché era nato con inatteso e preoccupante anticipo il mio secondo figlio. Alla fine del pranzo Helmut mi ha salutato mettendomi nelle mani una bottiglia di vino del 1974 da consegnare ad Antonio.
Nel suo ufficio di Berlino e, soprattutto, nella sua modesta villetta alla periferia di Ludwigshafen abbiamo portato avanti le nostre comuni riflessioni anche quando, come negli ultimi tempi, il colloquio era reso più complicato dall’aggravarsi della sua malattia, che rendeva più difficile l’espressione dei concetti che pure la sua mente formulava con la stessa chiarezza di un tempo, ma che dovevano essere tradotti dall’attenta comprensione della moglie.
Non credo che sia un caso che, nell’ultimo lungo colloquio, mi abbia espresso profonde e ripetute preoccupazioni sulla politica europea ma mi abbia, con altrettanta insistenza, espresso l’opinione che in Europa stia crescendo una nuova generazione capace di capire maggiormente lo spirito dei tempi e di riprendere il cammino del grande disegno europeo dei padri fondatori.
Non so quanto questa sua opinione possa trasformarsi in decisioni concrete ma certo questo è il messaggio politico di Helmut Kohl che cercherò di conservare con la stessa cura con cui Antonio conserva la bottiglia di vino del Reno che il Cancelliere gli ha fatto premurosamente arrivare.