Alberto Pasolini Zanelli
Costruire un muro gigantesco è
stato a lungo il sogno preferito di Donald Trump. Soprattutto nella campagna
elettorale, dove questa promessa è stata molto probabilmente decisiva ai fini
della sua vittoria, ma anche nel primo biennio della sua presidenza, ma più
come tormento che come promessa. Soprattutto perché le conseguenze della sua
intransigenza sono state una altrettanto accanita opposizione ma anche la
nascita di un nuovo problema più urgente e più doloroso: la paralisi dell’attività
pubblica, centrata su quasi un milione di “disoccupati” provvisori e sui
problemi che ne derivano in strati ancora più larghi della popolazione.
Doveva essere l’arma decisiva del
presidente, quella intesa per mettere con le spalle al muro i suoi critici, ma
egli non aveva previsto che con le spalle al muro ci sarebbe finito anche lui,
soprattutto dopo l’emergere di un “contropresidente” nei panni di una anziana
signora democratica. È nato un duello che di nuovo nelle ultime ore è finito in
una sconfitta per entrambi: il Congresso ha discusso e votato su due proposte,
entrambe rivolte a normalizzare l’attività pubblica ma separate dal solito
dilemma: la “offerta” dei repubblicani (che hanno la maggioranza in Senato)
includeva la costruzione del muro, quella dei democratici (che sono in
maggioranza alla Camera) la escludeva. Per essere approvata, una proposta del
genere aveva bisogno di sessanta voti. Quella repubblicana ne ha presi
cinquanta, quella democratica 52. Dunque entrambe sono state respinte. Con tristezza
per entrambi i campi, che si sono precipitati per cercare di trovare una
proposta accettabile per tutti.
Unico punto di accordo è per ora l’urgenza,
dato che sono ormai cinque settimane che gli uffici governativi sono chiusi e
vuoti. Con qualche eccezione singolare nel Nevada è stata aggredita e stuprata
la custode di un magazzino di armi nucleari, dopo mesi di minacce. L’incidente
ha naturalmente acuito le preoccupazioni circa la sicurezza di quelle superarmi.
A Trump si è offerta ora una modesta
consolazione: costruire una sorta di muro attorno al Venezuela, teatro di un
tentato colpo di Stato da parte del presidente della Camera che ha “deposto” il
presidente Maduro, consolato però dalla confermata fedeltà dell’esercito. L’America
gli ha ingiunto di dimettersi, lui ha espulso i diplomatici americani, Trump ne
ha già richiamato una parte, ma i suoi collaboratori più “falchi” hanno già
proposto un blocco economico attorno a un Paese che da anni è ridotto in miseria.
In suo soccorso si è già dichiarata la Russia. Una vicenda che rinfresca i
ricordi della Guerra Fredda.
Ma il pubblico americano continua
ad essere “circondato” dallo scontro sul muro che Trump ha promesso di
costruire al confine col Messico e su cui continua ad essere difficile e a
sembrare impossibile una soluzione di compromesso. Anche perché l’opposizione è
finita nelle mani di un politico duro e coraggioso: la presidente della Camera
Nancy Pelosi, esperta quanto Trump nel pronunciare i “no”.
Il dibattito tra i due si sta
trasformando in rissa verbale, non solo a causa del contrasto sulla questione
in sé, ma anche perché i due personaggi hanno tutto per rendere impossibile una
“fraternizzazione”. A parte lo scambio di divieti, ci sono i toni dell’inquilino
della Casa Bianca, un antifemminista senza pari, che sugli oppositori in
gonnella rovescia quasi ogni giorno epiteti che vanno da “piagnona”, “deboluccia”,
“racchia”, “cagna” e “faccia da cavallo”. L’anziana signora italoamericana
risponde per le rime. Nell’ultimo “duello” si è rifatta ai metodi della
famiglia Trump, in particolare del padre del presidente, che pare abbia “viziato”
il primogenito nelle sue prime avventure imprenditoriali, spesso finite male a
un giovane immediatamente consolato da massicci regali di milioni di dollari da
parte di papà. I commenti di Nancy sono stati sprezzanti, al punto che uno dei
più rispettati commentatori ha pubblicato un articolo dal titolo “La Pelosi
sculaccia i primogeniti”.